A Complete Unknown il biopic su Bob Dylan diretto da James Mangold nelle sale cinematografiche italiane dal 23 gennaio
Il film su Bob Dylan diretto da James Mangold, basato sulla biografia Dylan Goes Electric! di Elijah Wald è uscito nelle sale italiane il 23 gennaio. La pellicola è attesa da molti mesi, se ne è parlato tanto, le aspettative nei suoi confronti sono altissime.

Senza dubbio sulla carta si presenta come un lavoro di eccezionale pregio, con un regista esperto in materia, avendo già diretto nel 2006 Walk The Line, il film che parla della storia tra Johnny Cash e June Carter. Un cast di tutto rispetto, primo su tutti Timothée Chalamet, fulgida e giovane stella hollywoodiana che in qualunque pellicola abbia lavorato è riuscito a emergere.
Edward Norton, che non delude mai, la splendida Elle Fanning nei panni del primo amore newyorkese di Dylan, con una performance delicata e intensa. E la giovane e talentuosa Monica Barbaro nei panni di Joan Baez. Dunque, anche senza vedere il film, già si poteva presagire come un grande successo. Ora che è nelle sale, cosa ne è del Menestrello di Duluth? Cosa ne ha fatto James Mangold?
A Complete Unknown la recensione sul film di James Mangold
È il 1961 e un giovane dai capelli arruffati e con l’aria da vagabondo arriva a bordo di un’utilitaria nella Grande Mela. Porta con sé una chitarra, indossa un berretto sgualcito e ha uno sguardo incuriosito e perso al tempo stesso. Viene in cerca di risposte, si è fatto portare dal vento, come un anno dopo scriverà nella canzone Blowin’ in the Wind: “La risposta, amico mio, soffia nel vento”. Il giovane Dylan, ventenne senza un dollaro, ha l’aria di essere proprio in cerca di questo: risposte.
Scrive già da tempo e ha composto alcune canzoni, la splendida Girl from the North Country è già mezza pronta. Lui la strimpella come se nulla fosse, una ballata romantica, un capolavoro senza tempo che successivamente canterà insieme a Johnny Cash, rendendo quella piccola perla musicale qualcosa di unico e indimenticabile.

A spingerlo fino a New York in ogni modo sarebbe Woody Guthrie, sua fonte di ispirazione, cantante folk molto noto nell’ambiente, malato e ricoverato. Il cantante passerà gli ultimi anni della sua vita in un ospedale psichiatrico a causa della malattia di Huntington, che provoca alterazione del comportamento e deficit neurologici. Bob Dylan va in ospedale a trovarlo e lì conosce anche Pete Seeger. Ha così inizio un susseguirsi di incontri interessanti come quello tormentato con Joan Baez, poi Johnny Cash, Al Kooper e altri.
Un po’ di fortuna, un po’ di sfacciataggine, tanto tanto talento, un intreccio di avvenimenti, persone, situazioni. Bob Dylan cresce e si evolve, lo si vede proteggere la propria identità con le unghie e con i denti: lui non è di nessuno, non è etichettabile, lui non ha un genere, lui è un genere. Il successo si fa sempre più grande, le risposte continuano a non arrivare e Dylan procede nel suo viaggio tra canzoni di protesta ed esperimenti su quello che vuole suonare, come lo vuole suonare e dove.
Inizia a stargli tutto stretto da subito: i fan che lo inseguono, il sistema che vorrebbe catalogarlo e trovare pace, come se non sapere che cosa rappresenta Bob Dylan rendesse tutti piuttosto nervosi: troviamo un’identità vi prego a questo menestrello proveniente dal circo. Cosa che per tutto il film lui ricorda di frequente: “Ho imparato a suonare in un circo itinerante”.

Dylan scalcia, tra un giro in moto e uno di chitarra, tra una donna e l’altra, sempre in cerca di sapere. La sigaretta tra le dita, occhiali da sole e l’aria di chi non ha alcun interesse per l’opinione altrui. E non perché questo sia un comportamento cool, Bob Dylan arriva molto prima che fregarsene vada di moda. Non ha filtri e i suoi commenti taglienti arrivano dritti al punto, si rivolge a chi lo circonda con la stessa prontezza e sagacia che porta con sé quando scrive una canzone, libero e senza preconcetti.
Sono una manciata di anni quelli che Mangold porta sul grande schermo, mostrano un Dylan in stato embrionale che sviluppa una personalità eccentrica, elettrica (in tutti i sensi) e anarchica, che nel corso del tempo è cresciuta e si è sviluppata in modo esponenziale, come ben noto.
Un artista che con gli anni per la smania di trovare quelle risposte famose ha rivolto la sua attenzione non solo alla musica, ma anche alla pittura e alla scultura, con tutta la necessità che ha sempre avuto di manifestare il suo essere a tutto tondo. Questo non lo si vede nel film, questo arriverà dopo, lungo il suo cammino.

La cornice di Dylan è New York in tutto il suo decadente splendore, negli anni ’60 quando anche solo respirare l’aria della City era un’esperienza fuori dagli schemi. Un periodo di rivoluzioni, non solo a livello musicale ma anche politiche, razziali, sociali: la morte di Kennedy nel ‘63, quella di Malcom X nel ’65, la Guerra Fredda.
Voi armate i grilletti
perché altri sparino
poi vi sedete a guardare
il conto dei morti farsi più alto
Vi nascondete nei vostri palazzi
mentre il sangue di giovani
fluisce fuori dai loro corpi
ed è sepolto nel fango
Un momento storico dove ogni cosa era a un punto di svolta, dove ogni situazione aveva l’aria di essere fatidica. Il cerchio si chiude quando Dylan, in un nuovo spasmo di libertà e di anarchia, si libera dall’etichetta di cantante folk, fa arrabbiare tutti e spezza definitivamente le sue catene. Tra le urla della folla inferocita che un minuto prima lo odia per la chitarra elettrica e gli dà del traditore, ma un minuto dopo lo ama per Like a Rolling Stone, lui scrolla le spalle, inforca la sua Triumph e con il vento in faccia, lo stesso vento carico di risposte, torna a riprendere il suo viaggio.
Un lungo viaggio che porta l’artista a essere ancora oggi un monumento vivente della musica, amato, discusso, controverso, fuori dagli schemi, ma fondamentalmente sempre lui: il ragazzo del circo itinerante, il figlio del vento.