C’è già un precedente: la stessa Conferenza nella riunione del 10 marzo scorso esaminò una analoga proposta che prevedeva un impianto da 2,5 milioni di metri quadrati (1 km x 2,5 km) davanti San Vito Chietino.
Una proposta respinta: “Il parere – si legge sul verbale della seduta – viene reso negativamente in ragione dell’eccessiva ampiezza dell’impianto, che confligge con altri usi del mare ed altri mestieri di pesca, e del fatto che la Conferenza ha riscontrato nelle motivazioni addotte a supporto i profili di approssimazione e di incongruenza verbalizzati, anche con riferimento alla presunta natura biologica delle produzioni. La Conferenza approva all’unanimità la sintesi resa dall’Assessore e formula conseguentemente avviso contrario alla richiesta”.
Nei loro interventi in quella sede sia la rappresentante dell’Istituto Zooprofilattico che quelli dell’Area Marina Protetta Torre del Cerrano, al di là delle criticità intrinseche al progetto giustamente evidenziate, spiegarono che è necessario prima di qualsiasi atto che di fatto comporta la privatizzazione di un tratto di mare, un Piano di Utilizzazione delle Acque.
Appare infatti evidente – come il WWF Internazionale ha sottolineato nel suo recente studio MedTrends sugli scenari di sviluppo di tutte le attività produttive nel Mediterraneo – che senza un piano generale di tutta la costa abruzzese qualsiasi scelta rischia di penalizzare altre attività, ad esempio piccola pesca e diporto nautico, che agiscono nella stessa area, determinando illogici e immotivati privilegi a coloro che per primi fanno domanda, e di aumentare a dismisura gli impatti ambientali su una risorsa comunque limitata.
«Gli allevamenti in mare, in particolare quelli di cozze, hanno – spiega il delegato regionale WWF Luciano Di Tizio – un impatto sull’ecosistema enorme, e vanno necessariamente sottoposti a una valutazione ambientale. Ci sono inoltre atti prioritari fondamentali senza i quali la Regione non potrà concedere alcuna concessione.
Il Regolamento CE 854/04 prevede infatti che gli Stati membri provvedano a classificare le zone di produzione dei molluschi bivalvi vivi e a istituire un Sistema di Sorveglianza sulle zone di classificazione e sugli impianti di produzione che permetta un costante monitoraggio della salubrità di tali prodotti e della qualità igienico-sanitaria delle acque. Lo stesso regolamento definisce anche la classificazione sanitaria delle acque marine per la produzione dei molluschi bivalvi».
«Va anche considerato – aggiunge il vice presidente del WWF Italia Dante Caserta – che nonostante gli allevamenti siano creati per la stragrande maggioranza con fondi pubblici non ci sono adeguati vincoli sulla corretta gestione né l’obbligo di utilizzo di materiali a basso impatto. Così oggi le spiagge sono invase dalle reti di plastica delle “calze” con cui vengono allevati i mitili gettate in mare dopo il loro utilizzo.
È necessario inoltre, al di là dell’indispensabile Piano regionale di utilizzazione delle acque, la procedura di VAS e, considerando l’impatto che tali realizzazioni hanno sulle coste e sulle specie protette, una Valutazione di Incidenza per ogni singolo allevamento. Non si tratta di essere pregiudizialmente contrari agli impianti di acquacoltura, ma di garantire le condizioni affinché tali impianti non contribuiscono a danneggiare il già compromesso ecosistema marino».
Il WWF sottolinea infine come sia assurdo che la Conferenza regionale della pesca marittima e acquacoltura, che ha il “fine di sviluppare una pesca ed un’acquacoltura sostenibili sotto il profilo ambientale” – come recita il sito della Regione – non preveda la presenza di rappresentanti delle associazioni di protezione ambientale riconosciute dal Ministero dell’ambiente ai sensi dell’art. 13 della legge 394/86 e successive modificazioni.