Diciamocelo: chi non rimane affascinato da un calice colmo di quel vino pieno di bollicine che, mentre lo si mesce, produce una fitta spuma bianca simile alle onde marine che terminano la loro corsa infrangendosi sulla spiaggia? E poi, mentre lo si degusta, quel piacevole solletico che si avverte sulla lingua?
Il “vino con le bollicine” da quando (pare casualmente) è stato ufficialmente inventato dall’abate Don Perignon nel 1600 (ma pare che già i monaci benedettini dell’Abbazia di Rodengo Saiano nel bresciano ne avessero creato una versione), si è guadagnato sempre più spazio tra i consumatori, compiendo enormi passi in avanti nell’evoluzione delle tecniche produttive ma c’è ancora troppa confusione tra i consumatori per ciò che riguarda la distinzione tra le varie tipologie; non è raro che un cliente mi chieda un buon “prosecco-franciacorta” che è come chiedere al pizzicagnolo un “tartufo non aromatico”!
Cerchiamo di mettere ordine in questo mondo “gassoso”: il metodo charmat, in realtà, fu inventato da un piemontese di nome Federico Martinotti nel 1895 ma fu il francese (come al solito) Eugène Charmat a brevettarlo nel 1910; questa tecnica prevede la ri-fermentazione del vino (da cui nasce la bollicina) in grosse cisterne (autoclavi) pressurizzate ed a temperatura controllata per “soli” 30-60 giorni.
L’obiettivo di questa semplice e “veloce” tecnica è valorizzare i sentori dell’uva quindi i profumi ed aromi del vino base che devono prevalere sui sentori di lievito; ecco perchè, di solito, si usano vitigni aromatici o semiaromatici di cui il Re è il famoso prosecco (il più venduto) ma anche passerina, falanghina, ed altri; inoltre, lo charmat, ha dei costi di produzione bassi e permette di esporre la bottiglia sullo scaffale a 5/8 euro massimo. Sono possibili vari residui zuccherini: l’extra dry (il più diffuso) che ne ha 18-21 grammi per litro, il brut (12-15 g./lt) ed il dry (24-30) in modo da poter scegliere quello più adatto ai nostri gusti ed alla situazione: per un aperitivo “a secco”, si preferirà l’extra dry, per pasteggiare il brut e da abbinare ad un dessert il dry. Personalmente, preferisco il brut in quanto rimane pur sempre fruttato e troppi zuccheri residui non permettono di percepire adeguatamente un buon profilo aromatico oltre a nascondere eventuali difetti del vino base; non a caso, poche aziende producono la versione brut! Diffidate della versione “prosecco di cartizze” spesso venduta a 15 euro ed oltre: le relative uve provengono da una zona nella zona (una collinetta all’interno del valdobbiadene nel trevigiano) ma danno solo un prodotto più aromatico e troppo ricco di zuccheri quindi, in base a ciò che ho appena detto, troppi zuccheri ti fanno percepire meno aromi; è scaltrezza veneta che va tenuta a bada!
Negli ultimi anni, però, si è verificato un abuso dello charmat soprattutto da parte di aziende produttrici di vino fermo (senza bollicine) con l’obiettivo di “riciclare” vini non eccellenti spumantizzandoli con il metodo charmat “lungo” (dura 4-5 mesi) in modo da coprirne i difetti con l’abuso di lieviti; questa variante va bene se attuata con vini base ricchi di personalità (acidità, struttura, mineralità) e comunque prima dei lieviti bisogna riconoscere il vitigno originario: uno charmat lungo andrà bene con un buon trebbiano, un buon verdicchio un buon pecorino ma non con una passerina, falanghina e quant’altro! Se poi ciò dovesse essere un modo di avvicinarsi al metodo classico………. sarebbe una forzatura della natura la quale va studiata e rispettata. Infatti, il metodo classico o champenois……… bè, ne parleremo la prossima volta!
Buona riflessione.
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Stefano Grilli – enoteca Saraullo – Tortoreto