Vedere un libro di Stefano Benni nella particolare rilegatura dell’editore Sellerio è alquanto inconsueto, così come lo è leggere una sua opera che non sia esilarante e divertente come tutte le precedenti. Si intuisce subito che “La traccia dell’angelo” è squisitamente originale, non in linea con gli stili narrativi dell’autore, ha qualcosa di diverso e quindi di speciale, pur conservando quell’ironia tipica di Benni che sdrammatizza e allieta anche le pagine più tristi.
La scena con cui si apre il racconto è quella di un pranzo di Natale del 1955. Il piccolo Morfeo ha otto anni e aspetta con trepidazione il momento in cui potrà finalmente scartare i regalini sotto l’albero, dei tanto agognati soldatini. Sembra tutto perfetto: la famiglia riunita, il tepore e la gioia del Natale, il puntale sull’albero raffigurante un angelo che veglia sulla stanza. Ma la sventura non va in vacanza, non conosce feste, né si ferma davanti all’innocenza di un bambino. Una persiana molto pesante cade sulla testa del povero Morfeo che verrà trasportato d’urgenza in ospedale e, sebbene se la caverà, da quel giorno in poi la sua vita non sarà più la stessa. Quell’episodio segnerà per sempre la sua esistenza.
Nel secondo capitolo troviamo un Morfeo ormai adulto, pieno di problemi, paure, alle prese con un’insonnia cronica che lo tormenta e lo ossessiona. È diventato dipendente da psicofarmaci e medicine varie, sempre in giro per anonimi corridoi di ospedali, sposato e poi divorziato. La sua unica gioia è il figlio con cui però vive un rapporto simbiotico.
Tra la miriade di personaggi che incontriamo nel corso della lettura, spiccano due angeli, Gadariel e Elpis, pressoché onnipresenti. Il primo è un emissario del male, un ribelle rivoluzionario ben lontano però dalla nostra concezione di angelo maligno, tant’è che siamo portati a simpatizzare fin da subito con questo essere molto umanizzato. Il secondo è un angelo del bene nei panni di un’infermiera di un ospedale psichiatrico, che appare e scompare dalla vita di Morfeo, proprio come si addice alla sua categoria, tant’è che egli afferma:
ho capito cos’è un angelo. Posso vedere la sua traccia, ma so che non posso raggiungerlo, che le sue orme finiscono nel nulla.
Elpis, da buon angelo sfuggente, trova sempre parole di conforto per Morfeo, anche quando lo ricoverano in una clinica psichiatrica:
non sei mai entrato né mai uscirai da qui. È un trucco di cui l’uomo non si rende conto. Questo ospedale è il mondo, lo stesso mondo di prima, anche se ora non lo riconosci più. Il mondo è un enorme ospedale. Tutti cerchiamo di guarire, non soffrire troppo, di uscirne vivi ancora una volta, di cambiare qualcosa per sempre. Chi ha soldi può credere che potrà guarire dal mondo in fretta, comprerà ogni primario, medicina, privilegio e comodità, entrerà nella camera lussuosa, si sdraierà sul letto a baldacchino, si illuderà che nessun virus potrà entrare lì dentro, e se entrerà verrà stanato e ucciso in fretta. Ogni dolore che entrerà in un attimo uscirà. Sarà presto deluso. Soffrirà come gli altri, non c’è moneta per guarire dal mondo.
Il finale è avvolto in una sottile nebbia, quella del sogno, dove regna il dio Morfeo, figlio di Ipno e Notte. L’epilogo si ricongiunge all’inizio e l’interpretazione è lasciata al lettore, libero di pensare di aver letto i vaneggiamenti di un lungo sogno di un bambino, oppure la storia travagliata di un uomo e, di riflesso, dell’umanità. Ma c’è anche una terza via, perché spesso la verità sta nel mezzo, quella del sogno e della realtà che si incontrano in uno spazio indefinito, lì dove gli angeli lasciano la loro traccia.