Catania. Si chiama “Call Center Connection” ed è il nome dell’inchiesta della guardia di finanza di Catania che vede 11 persone indagate per truffa ai danni dello Stato. Uno di loro tentava di realizzare una joint venture in Abruzzo con la Regione dopo il terremoto.
Si tratta di una presunta truffa di circa 34 milioni di euro, realizzata con una rete di società italiane ed estere che riuscivano ad ottenere finanziamenti pubblici attraverso la costituzione di “contact center”, ossia aziende che vendono software a clienti del settore televisivo e della telecomunicazione, in Piemonte, Puglia, Calabria e Sicilia.
A scoprire i traffici la guardia di finanza di Catania, che sta già eseguendo un’ordinanza cautelare nei confronti degli individui coinvolti. Più precisamente, sono 10 le persone arrestate, a 5 delle quali sono stati concessi i domiciliari. Irreperibile al momento un solo indagato, che si troverebbe all’estero. Disposto, inoltre, il sequestro di beni per un valore di 130 milioni di euro riconducibili a quattro società e agli indagati, compresa una barca a vela di oltre 20 metri, vincitrice di diverse regate oceaniche.
Le indagini delle Fiamme Gialle avrebbero scoperto l’esistenza di un gruppo societario “a piramide” organizzato secondo il sistema delle “scatole cinesi”. Obiettivo della struttura era ovviamente quello di rendere impossibile qualunque tipo di accertamento fiscale e patrimoniale.
Centro dell’inchiesta alcuni progetti finanziati dal ministero dello Sviluppo Economico per un ammontare di 44 milioni di euro a favore di quattro società. Si tratta della “B2b” con sede legale a Catania ma operante a Trapani, della “Multimedia Placet” con sedi a Trapani e Bistritto, della “Multivoice” di Lametia Terme e della “Soft4web” di Vibo Valentia.
Grazie ai finanziamenti statali ottenuti con la legge 488, le aziende in questione acquistavano il “codice sorgente” di un software di gestione di call center, che secondo la polizia postale di Catania non sarebbe stato, però, mai utilizzato. Il codice presentava, infatti, un bug di difficile soluzione informatica, prodotto da due aziende che avevano sede all’estero. Le indagini della guardia di finanza avrebbero permesso di scoprire l’esistenza di strane fatturazioni fra gruppi e aziende, estranee tra loro “sulla carta”, ma in realtà ben collegate. Con questo sistema, le aziende riuscivano a svuotare le casse dei call center a favore di conti correnti che erano stati intanto aperti in banche svizzere ed orientali da società organicamente poste in posizione “superiore” nella catena di controllo a piramide.
Uno degli indagati stava lavorando, inoltre, al progetto di realizzare una joint venture in Abruzzo con la Regione dopo il terremoto. Obiettivo quello di ottenere fondi per costruire un centro di ricerca per produrre carburante ecologico, con una formula già sperimenta negli Usa ma rivelatasi assolutamente inefficace, per avere contributi che lo Stato avrebbe speso nella ricostruzione. La persona coinvolta sarebbe stata intercettata nell’aprile del 2009 dalla guardia di finanza. Nella telefonata ascoltata dagli investigatori un uomo rimasto sconosciuto dice, infatti, che presto avrà “una certificazione americana” che gli permetterà di fare “il primo carburante al mondo bio-degrabile” e che, per questo, “bisogna fare uno stabilimento che produce la sostanza” e far aggiungere da un esperto “degli ingredienti che non servono a un cazzo, in modo che nessuno ci capisca nulla”.
L’uomo spiega all’imprenditore indagato perché la scelta dell’Abruzzo: “per la visibilità con il mondo intero”, perché “donando” parte del ricavato sarà più facile “avere le autorizzazioni nell’iter burocratico”, ma soprattutto perché “ci vorranno 20 anni per accertare che alla fine è un prodotto di merda…”.
Secondo l’accusa, alcuni individui in particolare prestavano la propria consulenza alla società fornitrice del software. Per il procuratore capo D’Agata e il sostituto Fanara, “erano tre degli indagati i veri ideatori e promotori”.