La previdenza complementare sembra sempre più una via obbligata per assicurarsi una pensione dignitosa in futuro. C’è però un aspetto troppo spesso sottovalutato.
Ormai lo leggiamo o lo sentiamo dire tutti i giorni: le pensioni future saranno sempre più magre e senza una qualche forma di previdenza complementare i pensionati di domani faranno fatica a mantenere un tenore di vita dignitoso. Il discorso vale sia per i lavoratori dipendenti, sia per i liberi professionisti. Per incentivare l’adesione a piani pensionistici integrativi, è stata introdotta anche una serie di agevolazioni fiscali, a valere sul versamento dei contributi e sui rendimenti positivi che la gestione genera.
Ma, come sempre, non è tutto oro quel che luccica. La previdenza complementare presenta anche alcuni rischi e limitazioni. Gli investimenti finanziari sono esposti alle fluttuazioni dei mercati, per cui i rendimenti possono essere incerti. E non bisogna dimenticare i costi legati ai piani pensionistici privati, a partire da quelli di gestione e amministrazione, che potrebbero pesare sui benefici reali. La variabile più incisiva è però sicuramente quella fiscale.
Il primo elemento importante da considerare riguarda i contributi versati ma non dedotti dal reddito (fino alla soglia di 5.164,57 euro). In questo caso, occorre informare il fondo di previdenza complementare che l’importo versato non è stato dedotto fiscalmente, per evitare che sia applicata l’imposta del 15% in fase di erogazione degli importi maturati nel fondo.
Al momento dell’erogazione del capitale o della rendita vitalizia, infatti, concorre a tassazione solo la quota dei contributi dedotti dal reddito. Di conseguenza, se si rinuncia alla deduzione dei contributi versati in sede di dichiarazione dei redditi, al momento dell’erogazione del capitale o della rendita sarà possibile ottenere l’esenzione da tassazione di tale somma.
Il secondo elemento da tener presente è che i rendimenti che si vanno a sommare ai contributi versati, come tutti i rendimenti finanziari, sono tassati dal 2015 con un’aliquota del 20% (sotto forma di ritenuta a titolo d’imposta), ma con una speciale agevolazione. Sulla quota di rendimento che deriva dall’investimento in titoli di Stato, infatti, l’imposta del 20% si applica solo sul 62,5% del rendimento (ovvero, la tassa sul rendimento complessivo è del 12,5%).
Ma il fondo può investire anche in immobili, e in questo caso per la relativa quota si applica una imposta sostitutiva pari allo 0,5% (l’aliquota sale all’1,5% per gli immobili a uso abitativo). E se in un anno si ottengono rendimenti negativi? In quel caso si genera una “minusvalenza” che non va persa: sarà sottratta dai rendimenti positivi che si otterranno negli anni successivi.
Il calcolo della tassazione applicata sulla rendita pensionistica è invece più complessa, perché dipende da periodo di tempo in cui il capitale è maturato. Secondo la normativa vigente, per i capitali maturati dal 1° gennaio 2007, la parte derivante dai rendimenti maturati dalla gestione o dai contributi non dedotti è esente da tassazione, mentre la parte restante, costituita dai contributi dedotti e dall’eventuale TFR versato, è soggetta a un’imposta sostitutiva del 15% (riducibile di 0,30 punti percentuali per ogni anno di iscrizione eccedente il 15° di partecipazione con un limite massimo di riduzione di 6 punti, e ulteriormente ridotta al 9% dopo 35 anni di iscrizione).
Infine, oscilla tra 23% il 15%-9% anche la tassazione del capitale in caso di riscatto anticipato (la percentuale varia in base alla motivazione del riscatto e al numero di anni di partecipazione alla forma pensionistica).