Romandini (in foto) era il presidente del collegio nella prima sentenza sulla megadiscarica Montedison a Bussi sul Tirino, sentenza che in prima istanza assolse gli imputati. I 19 erano accusati di aver avvelenato le falde acquifere mentre il reato di disastro ambientale era stato derubricato in colposo e, quindi, prescritto.
Romandini per la stessa vicenda aveva subito un procedimento disciplinare del Csm; le due giudici popolari avevano rivelato come il magistrato in una cena organizzata nella pizzeria della Martini qualche giorno prima della sentenza avesse fatto delle allusioni sulle proprietà del giudice popolare. “Se noi condanniamo per dolo gli imputati dell’Edison, può succedere che loro si appellano e possono farci causa singolarmente ad ognuno di noi. A lei va di giocarsi tutta questa roba?”, avrebbe detto Romandini alla Martini come si legge nel dispositivo del Gip, che nella sentenza di Campobasso ha accolto la richiesta di archiviazione proposta dal pm.
Sia il Csm che il tribunale di Campobasso hanno messo una pietra sopra alla vicenda dando ragione alla Martini e non a Romandini in quanto “gli elementi probatori sono quindi insufficienti a sostenere la falsità delle informazioni rese dalle indagate nel corso del procedimento penale”, come si legge nella sentenza del Gip D’Agnone.
I giudici di secondo grado all’Aquila invece avevano riconosciuto il disastro ambientale e quindi condannato 10 degli imputati, mentre avevano dichiarato prescritto l’altro capo dell’imputazione, l’avvelenamento colposo di acque. La Cassazione successivamente nel 2018 aveva annullato le statuizioni civili, ritenendo il processo prescritto prima della sentenza di primo grado, ma, passaggio decisivo per il proseguo delle bonifiche, aveva confermato il disastro ambientale e l’avvelenamento delle acque.