Pescara. Ricorso in Cassazione per il pm Varone contro l’assoluzione dell’ex sindaco D’Alfonso e degli altri 16 imputati assolti al processo sugli appalti al Comune. Il giudice: accordi di programma non viziati.
Il sostituto procuratore Gennaro Varone non ci sta ad incassare la sconfitta: il magistrato che ha dichiarato guerra agli impeachment tra politica e affari ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza del giudice Gianluca Sarandrea sul non luogo a procedere nei confronti dell’ex sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso e degli altri 16 imputati in merito all’inchiesta Housework, che ha riguardato la gestione del settore urbanistico del Comune adriatico. Nel mirino dell’accusa i rapporti tra pubblici amministratori, tecnici di Palazzo di città e un gruppo di imprenditori.
Intanto, dalla lettura delle motivazioni della sentenza emessa in tribunale lo scorso 4 aprile, depositate nei giorni scorsi, si apprende che il giudice Sarandrea non ha “ravvisato alcuni vizi di legittimità negli accordi di programma adottati dal Comune di Pescara”. Nessuna contropartita, quindi, in merito al viaggio a New York pagato a D’Alfonso e al suo entourage dai costruttori di Mediterranea life srl: per il giudice non si tratta di un ‘regalo’ mirato a ottenere dal Comune un indebito vantaggio in merito all’accordo di programma tra l’amministrazione civica e la società edile. Al giudice, poi, è apparso “generico e privo di dimostrabile fondamento, l’assunto accusatorio in ordine a futuri favoritismi che il privato avrebbe potuto ottenere dal Comune pagando le spese del viaggio”.
Considerata pulita anche la famosa lista Dezio, gli appunti cartacei del braccio destro di D’Alfonso composta da nomi e cifre annotate con le lettere N e B, che per Varone corrispondevano a pagamenti in nero misti a tangenti. Per il giudice l’elenco può ammissibilmente essere il resoconto di contributi al partito politico La Margherita, quindi non riconducibile all’attivita’ amministrativa svolta dai vertici del Comune di Pescara in relazione ai piani di intervento proposti da privati. “Non è provata la circostanza”, fa notare il giudice nelle motivazioni, “che le somme riportate nella lista Dezio siano da ricondurre al prezzo per accordi corruttivi tra le parti”.