Nel testo della memoria difensiva si legge infatti che “la kafkiana odissea giudiziaria sofferta dal Pellegrini dimostra la palese illegittimità costituzionale dell’art. 75 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per violazione dei principi di ragionevolezza, uguaglianza e di ‘necessaria offensività’”, nonché violazione dell’art. 32 della Costituzione, “nella parte in cui non include tra le condotte assoggettate a mere sanzioni amministrative anche quella di coltivazione di piante di cannabis, laddove finalizzata all’esclusivo uso terapeutico”.
“Il dubbio di legittimità costituzionale già sollevato dalla Corte d’Appello di Brescia (sent. Cort. Cost. n. 109/2016)”, spiega il difensore, “per la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento tra chi detiene per uso personale sostanza stupefacente e chi è sorpreso mentre ha in corso l’attività di coltivazione finalizzata sempre al consumo personale, si trasforma in certezza assoluta quando, come nella concreta fattispecie, il futuro consumo personale della sostanza coltivata è stato prescritto dai medici per irrinunciabili esigenze terapeutiche. La violazione dell’art. 3 della Costituzione appare allora manifesta, in tutta la sua gravità, nella parte in cui l’art. 73 T.U.ST. punisce la condotta di coltivazione di sostanze considerate ‘stupefacenti’ senza operare distinzione alcuna tra le possibili finalità dell’uso personale, ponendo quindi, arbitrariamente e irrazionalmente, sullo stesso piano la coltivazione per scopo ‘ludico’ e quella dettata da fondamentali, incomprimibili e primarie esigenze terapeutiche. Il dubbio di legittimità costituzionale sorge spontaneo quando la previsione della rilevanza penale di quest’ultimo tipo di condotta si traduce, come in questo caso, nella negazione del diritto alla salute e quindi, inevitabilmente, nella violazione dell’art. 32 della Costituzione”.
La questione che dovrebbe allora sottoporsi al vaglio della Consulta consiste nella risoluzione di un confitto tra norme: “Il Legislatore, con lo scopo perseguito dall’incriminazione penale della condotta di coltivazione, non può certo aver stabilito una deroga all’inderogabile principio sancito dall’art. 32 della Costituzione, pena la violazione del principio di ragionevolezza. Condotte analoghe a quelle contestate a Pellegrini appaiono inoltre prive della ‘necessaria offensività’: la ratio dell’incriminazione penale collide infatti con le riconosciute proprietà terapeutiche della pianta (sancite dal Legislatore regionale), la cui asserita ‘nocività’ sembra la conseguenza del pregiudizio alimentato da decenni di sterile proibizionismo. Il riconosciuto beneficio terapeutico non può razionalmente conciliarsi con l’affermazione di pericolo per il bene giuridico della salute pubblica”, conclude Di Nanna.