Santo Romano, il 19enne morto nel napoletano, è stato ucciso una scarpa sporca. Su questa vicenda ai nostri microfoni è intervenuto Giuseppe Lavenia
L’ennesima morte di un giovane ci porta a fare delle domande. Si può uccidere un ragazzo di 19 anni per un pestone? Esiste un’emergenza giovani in Italia?
Ai nostri microfoni è intervenuto in esclusiva Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta, docente universitario e presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologie, per analizzare cosa ha portato il 17enne ad uccidere Santo Romano nel napoletano, ma anche a capire cosa sta succedendo ad una generazione sempre più violenta.
Lavenia: “Il pestone è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”
Professor Lavenia, partirei dalla morte del ragazzo di 19 anni in provincia di Napoli per un semplice pestone. Può un gesto simile scatenare una rabbia simile in un altro giovane?
“Un pestone, un banale incidente che non avrebbe dovuto lasciare altro che una risata e una scusa, si trasforma invece in una scintilla di furia. Ma è davvero il pestone a scatenare tutto questo? In realtà, quel gesto è solo il pretesto, la goccia che fa traboccare un vaso già colmo. La rabbia di quel ragazzo è il risultato di una frustrazione che si è accumulata, sedimentata come una ferita nascosta. È una frustrazione che nasce dall’assenza di ascolto, da aspettative che non trova modo di soddisfare, da un’identità che cerca spazio ma non lo trova. Quando un giovane non riesce più a gestire la propria frustrazione, ogni piccola offesa, anche un gesto casuale, diventa un’offesa personale, un motivo di scontro. È come se quella rabbia fosse lì, pronta a esplodere alla prima occasione. E quando esplode, non distingue più tra giusto e sbagliato, tra ciò che è proporzionato e ciò che non lo è. Siamo di fronte a un’emergenza emotiva, a una generazione che non ha più gli strumenti per gestire la pressione, che sente di essere invisibile, inascoltata, abbandonata. E allora, ogni gesto si trasforma in un grido, un urlo silenzioso che dice: ‘Io sono qui, vedetemi, ascoltatemi!’“.
Esiste un’emergenza giovani in Italia?
“L’emergenza non è nei giovani; è negli occhi di chi guarda senza capire. La violenza tra ragazzi non è un fenomeno a sé stante: è il riflesso di un disagio più profondo, che scorre sotto la pelle del nostro tempo. È come un fiume sotterraneo, alimentato da anni di indifferenza, da istituzioni lontane, da famiglie spesso impreparate a riconoscere le fratture interiori dei propri figli. Non siamo di fronte a una generazione perduta, ma a una generazione che lotta per trovare un posto in un mondo che sembra respingerla. Ogni atto di violenza è un segnale, un sintomo che qualcosa di essenziale è stato trascurato. Quindi sì, c’è un’emergenza, ma non è “giovani”: è un’emergenza di senso, di significato, di relazioni autentiche“.
Cosa si dovrebbe fare per porre fine a episodi simili?
“Non si combatte il fuoco con il fuoco. Reprimere è necessario, certo, ma non basta. Serve ricostruire il terreno su cui i nostri ragazzi camminano ogni giorno, dare loro strumenti per affrontare il mondo senza scivolare nel vuoto dell’odio. Occorre una rete di presenze vere, di adulti che non abbiano paura di avvicinarsi alle ferite di questi giovani, di ascoltarli senza giudicare, di offrire loro alternative valide alla solitudine che sentono. Le scuole, le famiglie, le strade: devono tornare a essere spazi di vita, di dialogo, di confronto sincero. E serve il coraggio di ripensare alla nostra società, una società che ha perso l’abitudine all’ascolto e preferisce voltarsi dall’altra parte. Non possiamo più permetterci di ignorare queste voci, perché ogni silenzio è un passo verso un altro vuoto, un’altra perdita“.
Dietro queste vicende c’è una responsabilità dei genitori? O la colpa è principalmente dei social network?
“La ricerca di un colpevole è un istinto naturale, ma rischia di ridurre la complessità della situazione. I genitori giocano un ruolo, certo, e i social network amplificano dinamiche che altrimenti resterebbero latenti. Ma limitarsi a dare la colpa è come guardare solo la superficie di un lago turbolento senza chiedersi cosa lo agiti nel profondo. I genitori possono fare molto, ma non tutto; i social possono distruggere, ma anche costruire. Siamo tutti coinvolti: insegnanti, istituzioni, adulti, perché ogni nostro comportamento, ogni nostro silenzio, ogni nostro sguardo distratto contribuisce a costruire o a demolire il mondo interiore di questi ragazzi. È troppo facile puntare il dito; molto più difficile è assumersi la responsabilità di un cambiamento collettivo“.
“La solitudine è il vero fantasma dei nostri tempi”
C’è anche un problema di solitudine nei giovani di oggi?
“La solitudine è forse il vero fantasma dei nostri tempi. I giovani sono iperconnessi, eppure disperatamente soli. Vivono in una realtà dove la comunicazione è spesso superficiale e l’intimità un lusso raro. Siamo esseri sociali, eppure ci ritroviamo nascosti dietro schermi, sempre più distanti gli uni dagli altri, sempre più lontani da un senso di appartenenza. Un “like” non consola, uno schermo non abbraccia, un messaggio non cura. È una solitudine silenziosa, nascosta dietro sorrisi finti e filtri patinati, ma dentro lascia un vuoto immenso. E quel vuoto, se non colmato, può trasformarsi in disperazione, rabbia, violenza. La solitudine è il terreno fertile su cui cresce il disagio giovanile, ed è nostra responsabilità creare spazi di ascolto, di vicinanza vera, perché nessuno debba sentirsi solo in un mondo affollato“.
Le difficoltà dei ragazzi sono poco affrontate nel dibattito nazionale? Si potrebbe fare di più?
“Le difficoltà dei giovani, purtroppo, non trovano ancora un posto centrale nel dibattito nazionale. Si parla di loro, spesso, come di un problema, ma raramente si ascolta veramente ciò che hanno da dire. Viviamo in una società che è diventata sorda alle loro paure, cieca ai loro bisogni, e questo silenzio è una condanna che lascia cicatrici. Fare di più non è solo possibile; è necessario. Significa non solo discutere di loro, ma coinvolgerli, dare loro voce e significato, perché solo ascoltando le loro storie possiamo costruire un futuro che non sia solo una replica del nostro passato“.