È trascorso poco più di un decennio da quando il Parlamento italiano ha deciso di modificare il Titolo V della Costituzione, consentendo – tra le altre cose – che le Regioni italiane si dotassero di una nuova forma di governo: il Presidente della Regione, salvo che lo Statuto non disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto. Una volta eletto, egli procede alla nomina degli assessori. E se la carica di Presidente della Regione viene meno, gli assessori rassegnano le dimissioni e il Consiglio regionale si scioglie.
Questo modello, com’è noto, è stato recepito anche dalla Regione Abruzzo, che nello Statuto riscritto nel 2006 ha deciso di far eleggere il Presidente della Regione direttamente dai cittadini e non più dal Consiglio regionale. È notizia di questi giorni, tuttavia, che il Consiglio regionale abruzzese intenda discutere una proposta di revisione dello Statuto, volta ad introdurre nell’ordinamento regionale la c.d. “questione di fiducia”. Di cosa si tratta?
La questione di fiducia è un istituto tipico del diritto parlamentare, cui il Governo nazionale ricorre ogni qual volta ritenga che l’approvazione di un certo atto da parte del Parlamento sia assolutamente imprescindibile per il proseguimento della propria attività politica: qualora il Parlamento non dovesse approvare l’atto posto in votazione dal Governo, questo si dimetterà. Poiché il ricorso alla questione di fiducia comporta che l’atto debba essere votato senza possibilità di apportarvi modifiche, esso risulta essere, nei fatti, uno strumento decisivo a disposizione dell’Esecutivo, al fine di superare l’ostruzionismo manifestato dalle opposizioni in Parlamento.
Ebbene, la proposta di disciplinare nello Statuto regionale abruzzese la questione di fiducia desta più di una perplessità.
Per quanto concerne la legittimità di una scelta siffatta, è da dire che il significato profondo di questo istituto può essere colto solo a patto di riflettere intorno al tipo di rapporto che in ambito statale corre tra il Governo e il Parlamento. Sul piano nazionale, infatti, il Governo non può svolgere la propria attività senza che abbia prima ottenuto la fiducia di entrambe le Camere. Lo stabilisce la Carta costituzionale all’art. 94. Nel caso della Regione Abruzzo, invece, il Presidente e la Giunta non devono ottenere alcuna fiducia da parte del Consiglio, in quanto la legittimazione all’esercizio dell’attività politica dell’esecutivo regionale promana direttamente dal voto popolare.
L’art. 123 della Costituzione prevede che “ciascuna Regione ha un proprio Statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di governo”. Se si considera, poi, quel che stabilisce in altra sua parte la Costituzione, si scopre che in essa vengono elencati in modo puntuale i casi di cessazione dalla carica del Presidente: approvazione di una mozione di sfiducia, rimozione, impedimento permanente, morte e dimissioni volontarie del Presidente (art. 126).
Si osserverà: ma è la stessa Costituzione che, in modo del tutto singolare, considera tra le cause di cessazione della carica del Presidente l’approvazione di una mozione di sfiducia da parte del Consiglio; seppur implicitamente, essa parrebbe, con ciò, ammettere che il rapporto tra il Presidente e il Consiglio possa, quindi, essere di tipo fiduciario. Nemmeno per sogno; e del resto la stessa Corte costituzionale ha escluso una lettura di questo tipo, quando nel 2006 ha bocciato lo Statuto della Regione Abruzzo, proprio nella parte in cui pretendeva di condizionare l’entrata in carica della Giunta al voto di fiducia espresso dal Consiglio. Allora si dirà: ma anche altre Regioni hanno disciplinato nel proprio Statuto la questione di fiducia. E quando lo hanno fatto, il Governo non ha impugnato, per questa parte, lo Statuto dinanzi alla Corte costituzionale. Certo. Ma questo non toglie che una previsione siffatta potrebbe essere comunque illegittima, posto che se si introducesse la questione di fiducia nello Statuto si andrebbe ad incidere esattamente sulla natura del rapporto che deve correre tra il Presidente e la Giunta, da un lato, e il Consiglio, dall’altro: in tal caso, l’effetto che si ricollegherebbe alla questione di fiducia sarebbe esattamente quello di verificare se tra i due organi della Regione sussista ancora … la fiducia! Il che – per la Regione che avesse optato per l’elezione diretta del Presidente – sarebbe evidentemente un controsenso.
Vero è che anche in assenza di una espressa disciplina della questione di fiducia da parte dello Statuto, al Presidente della Regione non sarebbe comunque impedito di rassegnare le proprie dimissioni qualora il Consiglio non dovesse approvare una legge nel senso da egli voluto. Ma è pur vero che in questa evenienza si ricadrebbe nell’ipotesi di “dimissioni volontarie” già considerata dall’art. 126 della Costituzione.
A queste perplessità, altre, tuttavia, se ne aggiungono. Sottrarre al Consiglio la funzione di rappresentanza della comunità regionale e concentrarla nelle mani del solo Presidente espone, infatti, la Regione al rischio paradossale di versare in una situazione di subalternità rispetto alle decisioni assunte dal Governo nazionale. Taluni commentatori hanno, in verità, sottolineato come, a seguito dell’entrata in vigore della riforma costituzionale, il rafforzamento della posizione del Presidente della Regione abbia di fatto inciso sulle relazioni intrattenute con gli organi dello Stato centrale. Secondo questa opinione, il Presidente della Regione, forte dell’investitura popolare, si ergerebbe a principale difensore dei peculiari interessi che emergerebbero dalla comunità regionale; per questo – si è concluso – egli esprimerebbe un maggior grado di indipendenza rispetto alle posizioni assunte dal Governo nazionale. In tal senso andrebbero, ad esempio, lette le vicende che hanno portato i Governatori del Piemonte e del Veneto ad opporsi alla distribuzione sul proprio territorio di alcuni farmaci abortivi. Ora, può darsi che in questa opinione vi sia molto di vero; pur tuttavia ritengo che un epilogo di questo tipo si colleghi più ad una valutazione soggettiva, che ad una serie di circostanze obiettive. Per le ragioni più disparate, non si può, infatti, escludere che un Presidente e la sua maggioranza possano ritenere più conveniente assumere una posizione remissiva ed accettare di buon grado quanto chiesto o anche solo desiderato dal Governo nazionale. Le modalità sarebbero le più disparate: essi potrebbero decidere di non impugnare una legge dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale, quando questa leda in modo manifesto una competenza della Regione; escludere di resistere in giudizio, quando sia il Governo ad impugnare una legge della Regione dinanzi alla Corte; ritenere di dover sottoporre all’approvazione del Consiglio una legge ideata e scritta per i cittadini della Regione direttamente dal Governo, com’è accaduto per l’Abruzzo con la legge sul petrolio e come forse accadrà con la legge sul servizio idrico integrato: in entrambi i casi, infatti, il Governo nazionale ha condizionato il ritiro del ricorso di legittimità costituzionale all’approvazione da parte del Consiglio di un testo di legge, elaborato direttamente a Roma.
Ora, si provi a pensare a quel che accadrebbe se si introducesse nello Statuto della Regione la questione di fiducia: il Consiglio regionale approverebbe una legge; il Governo la impugnerebbe, promettendo, tuttavia, di rinunciare al ricorso qualora la Regione approvasse una legge scritta direttamente a Palazzo Chigi. Quindi la Giunta presenterebbe al Consiglio regionale un nuovo disegno di legge, corrispondente in tutto e per tutto a quella voluta dal Governo. E su di esso porrebbe la questione di fiducia. A quel punto, il Consiglio regionale si troverebbe a dover approvare quel testo senza possibilità di introdurre emendamenti: prendere o lasciare. Nel caso in cui la proposta non fosse approvata, il Presidente e gli assessori sarebbero costretti a dimettersi e i consiglieri tornerebbero a casa.
Enzo Di Salvatore
Docente di diritto costituzionale – Università degli Studi di Teramo