Qualcosa o qualcuno ha reso meno pure le acque abruzzesi. Una relazione dell’Istituto Superiore di Sanità ha stabilito che, in provincia di Pescara, la falda acquifera è stata “indiscutibilmente, significativamente e persistentemente compromessa per effetto dello svolgersi di attività industriali di straordinario impatto ambientale”.
L’acqua di cui hanno usufruito circa 700 mila cittadini risulta infatti contaminata da circa 250 mila tonnellate di rifiuti tossici provenienti dall’ex Polo chimico Montecatini Edison di Bussi: scarti industriali della produzione di cloro, soda, varechina, formaldeide, percolati, cloruro di vinile, tricloroetilene e cloruro di ammonio.
Possibile che nessuno si fosse accorto di un fenomeno così grave che, silenziosamente, minaccia la salute di un’intera città?
Eppure, lo scorso 13 aprile 2013, la provincia abruzzese ha ospitato un’importante manifestazione con cui le istituzioni locali e i movimenti ambientalisti promuovevano a gran voce il rispetto della natura.
In quell’occasione un corteo di 40mila persone sfilò pacificamente per le strade della cittadina al grido di: “No al petrolio”. In quell’occasione, marciando dalla Madonnina fino Piazza Primo Maggio, sindaci, imprenditori, sigle sindacali e finanche esponenti del clero hanno urlato tutta la loro contrarietà all’installazione della piattaforma petrolifera Ombrina Mare.
Una protesta compatta contro un progetto industriale per cui, al momento, deve ancora essere poggiata la prima pietra. Insomma, una mobilitazione di piazza contro uno stabilimento che ancora non esiste.
Ma allora dove si erano cacciati gli intransigenti ecologisti quando le sostanze tossiche venivano seppellite illecitamente nel sottosuolo pescarese? E’ mai possibile che autorità e associazioni non si siano mai rese conto neanche degli sversamenti di materiale inquinante nel fiume Tirino?
Su questo punto, qualche praticante avvocato potrebbe chiedere la parola per un’arringa: “Proprio perché il territorio abruzzese è già martoriato da avvelenamenti di ogni tipo, per quale motivo dobbiamo rischiare di aggravare la situazione con le estrazioni petrolifere?”.
A mettere ordine tra i dubbi leciti e gli inutili allarmismi ci ha pensato uno studio realizzato recentemente da Confindustria Chieti che ha rilevato come, nonostante dal 1956 a oggi in Abruzzo siano stati realizzati ben 553 pozzi on-shore (a terra) e 184 pozzi off-shore (in mare), l’attività petrolifera “non ha mai prodotto incidenti da cui siano derivati danni all’ambiente o alla salute dei cittadini”.
Nonostante la conferma che questo settore industriale tutela società ed ecosistema, però, sul territorio abruzzese e nel resto del Paese c’è ancora chi protesta per la realizzazione di un qualsiasi pozzo petrolifero a causa di ipotetici pericoli per spazio e individui.
Alla vigilia di una campagna elettorale che si preannuncia infuocata, anche la più nobile delle battaglie ideologiche può trasformarsi in uno strumento per arrivare alla tessera elettorale della collettività e, soprattutto, per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai reali problemi.
La difesa del proprio habitat è un processo fondamentale in una società civile, così come lo sfruttamento sostenibile di quelle risorse che potrebbero garantire il benessere economico. L’importante è che questi due aspetti non vengano mai messi in contrasto tra loro o, piuttosto, non siano strumentalizzati come slogan alla vigilia delle elezioni.
Ne va del futuro dell’Abruzzo.
Diego Vitali (Gocce di verità)