Il petrolio e l’Abruzzo off-shore: il dossier dei No Triv sul fisco fai da te

“In Italia Cygam Energy Inc. controlla Vega Oil S.p.a. e, con Petroceltic, può fregiarsi di Elsa nell’off-shore abruzzese oltre che di numerosi titoli nella Po Valley. Tramite Total E&P Italia, la multinazionale d’Oltralpe, con i suoi 234.278 milioni di dollari di fatturato e 13.743 milioni di dollari di profitti nel 2012, detiene il 50% della concessione di Tempa Rossa, “unico progetto italiano inserito dalla banca d’affari americana Goldman Sachs tra i 128 progetti più importanti al mondo in fase di attuazione e capaci di cambiare gli scenari mondiali dell’energia estrattiva”, capace da sola di incrementare del 40% la produzione nazionale di petrolio (T>energy, L’alba di Tempa Rossa, Roma, marzo 2013″). La denuncia arriva da Enrico Galliano del Coordinamento No Triv.

L’associazione ambientalista abruzzese denuncia, attraverso un dossier, le ‘agevolazioni fiscali’ per le società petrolifere che agiscono in Regione.

Secondo il dossier “il 25% di Tempa Rossa è invece di Shell, 1.273 filiali in tutto il mondo, anch’essa nella black list di ‘Publiez ce que vous payez’. Per la cronaca, BP e Total sono anche azionisti del progetto T.A.P.. Non solo. Quale altro settore della nostra acciaccata economia può vantare un “payout time” (nelle attività di estrazione è il tempo necessario affinché il valore della produzione di un pozzo copra per intero i costi perforazione, di funzionamento, le tasse, ecc..) pari agli 8 mesi dichiarati da JKX Italia e cristallizzati nel Decreto Ministeriale di concessione del titolo per la coltivazione di gas naturale ‘Aglavizza’? Restando nel campo delle attività lecite e, in particolare, nel settore ‘Energy’ (es.: impianti per la produzione di energia elettrica da fonte solare), si ragiona invece nell’ordine di 6/7 anni contro gli 8 mesi di ‘Aglavizza’, che nel frattempo potrebbero essere diventati 10 a causa della diminuzione del prezzo del gas naturale. Per una centrale a biomasse come quella ipotizzata a Bazzano, ben nota al think tank aquilano di Confindustria Abruzzo, si viaggia su tempi ancora più lunghi. Forse perché, tra le altre cose, i costi di approvvigionamento della biomassa sopravanzano in valore le royalties petrolifere? In Italia le compagnie versano allo Stato corrispettivi (royalties) risibili soprattutto se rapportati ai quantitativi, limitati e definiti, che è possibile estrarre dal sottosuolo con metodi convenzionali: sempre JKX Italia stima la durata del ciclo di vita della concessione ‘Aglavizza’ in massimo 15 anni. Più recentemente si è espressa anche la canadese Cygam Energy Inc. (Italia Oggi, Italia paradiso fiscale del petrolio, 1 luglio 2010): ‘Italia paradiso fiscale del petrolio … Mini royalty del 4%, franchigia sulla produzione dei primi 300 mila barili all’anno (per singolo giacimento) … una produzione libera da royalties sui primi 822 al giorno, per singolo giacimento … e non ci sono restrizioni al rimpatrio dei profitti’.

DI SEGUITO IL DOSSIER INTEGRALE DEL COORDINAMENTO NO TRIV ABRUZZO

SU FISCALITA’ E ROYALTIES PETROLIFERE STOP ALLE MISTIFICAZIONI

Non si mischiano e non si sommano le mele con le pere. Bisognerebbe fare altrettanto con royalties e tributi.

Procediamo con ordine, partendo dalle definizioni.

Con il termine ROYALTIES si indica il pagamento di un corrispettivo allo Stato per poter sfruttare un dato bene ai fini commerciali; esse sono quindi la remunerazione di diritti ceduti a terzi.

Il loro ammontare viene calcolato applicando sul valore della produzione calcolato su prezzi medi del mercato un’aliquota che varia in funzione del tipo di minerale estratto (gas o petrolio) e dell’ubicazione della concessione (terra o mare): per idrocarburi estratti sulla terra ferma il 10%; per il gas in mare il 7% e, infine, per il petrolio off shore il 4%.

Sono inoltre previste quote annuali di produzione esenti da royalties.

I TRIBUTI, invece, possono consistere in imposte, tasse o contributi.

L’ imposta è costituita dal versamento che l’ente pubblico esige dal contribuente per far fronte ai costi finanziari della prestazione di servizi a favore della collettività.

La tassa viene pagata dal contribuente come controprestazione di un determinato servizio reso da un ente pubblico (es.: tassa universitaria, ticket sanitario, ecc.).

Si hanno infine contributi allorché l’ente pubblico, nel prestare un servizio a favore della collettività, arreca congiuntamente un vantaggio economico particolare, obiettivamente determinabile, a un determinato individuo che si trova in una particolare situazione rispetto al servizio pubblico reso operante (P. Armani, F. Bulckaen, Scienza delle Finanze, Roma, Le Monnier, 1982).

Imposte, tasse e contributi hanno in comune l’elemento caratteristico della coattività e non costituiscono un prezzo pagato dall’individuo o dalle imprese.

LE ROYALTIES, essendo un corrispettivo che le compagnie pagano allo Stato, NON APPARTENGONO AD ALCUNA DELLE TRE CATEGORIE. Sono pertanto estranee al concetto di pressione fiscale.

Cerchiamo di capire perché.

Gli idrocarburi fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato (art. 826 c.c.). E’ lo Stato ad autorizzarne la ricerca ed è sempre lo Stato a concederne il diritto di coltivazione dietro versamento di un corrispettivo che rappresenta per la compagnia petrolifera un costo di produzione al pari di tutti gli altri costi legati, ad esempio, alle attività di ricerca e di trivellazione, di depurazione, ecc..

In quanto costi le royalties sono deducibili fiscalmente, cosa che non sarebbe consentito fare qualora venisse riconosciuta la loro natura di tributo.

Ad adiuvandum: che non siano inserite tra le voci nel Titolo I delle Entrate di Bilancio di Previsione di Stato, Regioni e Comuni, e che siano calcolate sul valore della produzione dovrebbe risultare sufficiente per fugare ogni residua perplessità circa la loro natura extra-tributaria.

Le royalties, dunque, non rientrano nella misura del prelievo fiscale.

Del resto, nel calcolo della pressione fiscale che grava su tutte le imprese che non appartengono al settore Oil & Gas si considerano forse i costi di approvvigionamento delle materie prime?

IL FISCO PRIVILEGIA LE IMPRESE OIL & GAS

In Italia le royalties versate dalle imprese di estrazione varrebbero il 22% della tassazione complessiva che si attesterebbe a sua volta nell’intorno del 65% (Confindustria Chieti, Idrocarburi, Dati e Riflessioni su un Settore Strategico, Chieti, 2013). Depurato di quel 22% delle royalties -che non hanno natura tributaria-, quel 65% indicato da Confindustria Chieti scende drasticamente al 43%.

Si ricorda che in Italia il dato medio della pressione fiscale che grava sulle imprese è del 68,3% (elaborazione de Il Sole 24 ORE su dati PwC, Kpmg, Ocse), 25,3 punti percentuali in più rispetto ai “privilegiati” dell’Oil & Gas.

Questo vuol dire che in uno Stato rapace, che reclama tributi scandinavi in cambio di servizi inefficienti ed inadeguati, esistono contribuenti particolarmente tartassati che versano tasse, imposte e contributi in misura maggiore rispetto alle imprese estrattive di gas e petrolio.

Inoltre, numerose amministrazioni locali (Pedaso, Porto Sant’Elpidio, Pineto, ecc.) si sono viste costrette a percorrere i vari gradi di giudizio, con alterne fortune, per reclamare il versamento delle somme dovute dalle compagnie petrolifere a titolo di ICI per gli impianti off shore, malgrado la Corte di Cassazione abbia stabilito con sentenza n. 13794 del 21 febbraio 2005 che “sull’intero territorio dello Stato, ivi compreso il mare territoriale, convivono e si esercitano i poteri dello Stato contestualmente ai poteri dell’ente regione e degli enti locali”, riconoscendo pertanto la capacità impositiva dell’ente locale anche sul mare territoriale.

Tra i Comuni coinvolti in estenuanti contenziosi milionari con le società petrolifere si rammentano Pineto, Tortoreto, Falconara Marittima, Pedaso, Termoli, ecc..

Pochi eletti vorrebbero dunque far valere il principio del “pagare meno noi per far pagare di più gli altri”.

COMPAGNIE DEL PETROLIO E FISCO “FAI DA TE”

Per le società estere che progettano di operare nel nostro Paese portare i profitti all’estero non sembra costituire un problema insormontabile. Non lo è certamente Giuseppe Rigo, Interim Presidente and Chief Executive Officer di Cygam Energy Inc., secondo cui “… non ci sono restrizioni al rimpatrio dei profitti” (Annual Information Form fot the Year Ended, December 31, 2011).

Per inciso, in Italia Cygam Energy Inc. controlla Vega Oil S.p.a. e, con Petroceltic, può fregiarsi di Elsa nell’off-shore abruzzese oltre che di numerosi titoli nella Po Valley.

Ad onor del vero questo problema non è solo italiano. Infatti, secondo lo studio “Piping Profits”, redatto dalla sezione norvegese dell’associazione non governativa “Publiez ce que vous payez”, le dieci principali multinazionali del settore possiedono 6.038 filiali, di cui più di un terzo con sede nei paradisi fiscali. Queste 10 società, tra cui Exxonmobil, Chevron, Shell, BP, Rio Tinto o Glencore, hanno generato nel 2010 un fatturato di 1.824 miliardi di dollari e realizzato 144 miliardi di dollari di profitto, e per pagare molto meno tasse rispetto al dovuto hanno domiciliato numerose loro filiali nelle cosiddette “giurisdizioni segrete”.

Secondo gli autori del rapporto, la Total, definita come “dopata di opacità”, si è rifiutata di dare qualsiasi informazione sulle sue 685 filiali, sulla loro localizzazione e sui relativi conti finanziari.

La multinazionale francese nega che la localizzazione delle sue filiali risponda ad una logica di ottimizzazione fiscale ma al contempo si mostra contraria all’introduzione di nuovi criteri di trasparenza (Agnès Rousseaux, basta!, 20 settembre 2011).

Ricordiamo che tramite Total E&P Italia, la multinazionale d’Oltralpe, con i suoi 234.278 milioni di dollari di fatturato e 13.743 milioni di dollari di profitti nel 2012, detiene il 50% della concessione di Tempa Rossa, “unico progetto italiano inserito dalla banca d’affari americana Goldman Sachs tra i 128 progetti più importanti al mondo in fase di attuazione e capaci di cambiare gli scenari mondiali dell’energia estrattiva”, capace da sola di incrementare del 40% la produzione nazionale di petrolio (T>energy, L’alba di Tempa Rossa, Roma, marzo 2013).

Il 25% di Tempa Rossa è invece di Shell, 1.273 filiali in tutto il mondo, anch’essa nella black list di “Publiez ce que vous payez”.

Per la cronaca, BP e Total sono anche azionisti del progetto T.A.P..

IL PAYOUT TIME DI UN PROGETTO DI ESTRAZIONE DI GAS NATURALE

Non solo. Quale altro settore della nostra acciaccata economia può vantare un “payout time” (nelle attività di estrazione è il tempo necessario affinché il valore della produzione di un pozzo copra per intero i costi perforazione, di funzionamento, le tasse, ecc..) pari agli 8 mesi dichiarati da JKX Italia e cristallizzati nel Decreto Ministeriale di concessione del titolo per la coltivazione di gas naturale “Aglavizza”? Restando nel campo delle attività lecite e, in particolare, nel settore “Energy” (es.: impianti per la produzione di energia elettrica da fonte solare), si ragiona invece nell’ordine di 6/7 anni contro gli 8 mesi di “Aglavizza”, che nel frattempo potrebbero essere diventati 10 a causa della diminuzione del prezzo del gas naturale.

Per una centrale a biomasse come quella ipotizzata a Bazzano, ben nota al think tank aquilano di Confindustria Abruzzo, si viaggia su tempi ancora più lunghi. Forse perché, tra le altre cose, i costi di approvvigionamento della biomassa sopravanzano in valore le royalties petrolifere?

IL LIVELLO DELLE ROYALTIES

Difatti, l’altra nota dolens per le compagnie del petrolio e del gas è costituita dal livello delle royalties in Italia, ritenute alte rispetto allo standard internazionale. Il benchmark lo si fa, neanche a dirlo, sempre la Norvegia dove, in verità, a fronte di royalties nulle, il prelievo da tassazione locale per le imprese estrattive è del 78% (Nomisma Energia, Tassazione della Produzione di Gas e Petrolio in Italia: un confronto), contro il 43% dell’Italia.

Il dato relativo alla tassazione norvegese merita di essere contestualizzato: nel Paese scandinavo il settore dell’energia è largamente presidiato dallo Stato ed i proventi del petrolio confluiscono in un Fondo Pensioni Sovrano.

In Italia, invece, le compagnie versano allo Stato corrispettivi (royalties) risibili soprattutto se rapportati ai quantitativi, limitati e definiti, che è possibile estrarre dal sottosuolo con metodi convenzionali: sempre JKX Italia stima la durata del ciclo di vita della concessione “Aglavizza” in massimo 15 anni.

A dare atto dell’esiguità delle royalties sono sia le stesse imprese del settore sia la loro associazione più rappresentativa; in tempi non remoti, ad esempio, la stessa Assomineraria (Gianni Bonati, Conferenza OMC, Ravenna, 2 aprile 2004):

“- i canoni superficiali uniformati e sicuramente modesti contribuiscono ad incentivare gli operatori soprattutto nelle prime e più rischiose fasi della prospezione e della ricerca (art. 18, D.lgs. 625/96);

– le royalties sulla produzione sono disciplinate in maniera armonizzata e risultano certamente contenute in rapporto ad altre legislazioni … omissis …

– in varie circostanze l’Assomineraria ha prodotto risultati di studi dai quali risulterebbe che in Italia i costi “industriali” di produzione degli idrocarburi a testa pozzo, e cioè al netto delle royalties, si pongono nella parte inferiore del “range” europeo e sono quindi abbastanza competitivi. Tale panorama non viene sostanzialmente modificato se si tiene conto della fiscalità e, in particolare, delle royalties”.

Più recentemente si è espressa anche la canadese Cygam Energy Inc. (Italia Oggi, Italia paradiso fiscale del petrolio, 1 luglio 2010):

“Italia paradiso fiscale del petrolio … Mini royalty del 4%, franchigia sulla produzione dei primi 300 mila barili all’anno (per singolo giacimento) … una produzione libera da royalties sui primi 822 al giorno, per singolo giacimento … e non ci sono restrizioni al rimpatrio dei profitti”.

A riprova del fatto che nulla è cambiato nel corso degli anni, Giuseppe Rigo, Interim Presidente and Chief Executive Officer di Cygam Energy Inc., ha ribadito i medesimi concetti il 17 luglio 2012, in occasione dell’Annual Information Form fot the Year Ended, December 31, 2011:

“In Italy, for offshore exploration permits, the state royalty on oil production is 4% (which is at the low end of international oil and gas taxation and less than Canada and the United States), with a provision that no royalties are paid on the first 300,000 bbls of oil production per year, per field. This represents a royalty-free production on the first 822 bbls of oil per day, per field. Offshore gas production is subject to a 7% royalty, but the first 1,750 MMcf per year, per field (or approximately 4.8 MMcf per day) are also royalty-free. Under the June 26, 2012, Decree DL83/2012, which is subject to ratification by the Italian Government within 60 days, the current offshore royalty regime will be increased by an additional 3%. For onshore permits, the state royalty on production of both oil and gas is a maximum of 10%, with a provision that no royalties are paid on yearly production less than 125,000 bbls of oil and 700 MMcf of gas, per field (or approximately 340 bbls/d and 1.9MMcf/d) …. and there are no restrictions on repatriation of profits”.

Quanto basta per chiudere un capitolo penosissimo e imbarazzante che, considerate le serie difficoltà in cui versano famiglie ed imprese, non ha ragione di esistere.

Coordinamento Nazionale NO TRIV – Comitato Abruzzo

Enrico Gagliano

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