Teramo. L’Ordine del giorno “No all’Italia senza Province”, elaborato dall’Upi e ieri votato da tutti i Consigli d’Italia, è stato approvato a Teramo a maggioranza: hanno votato contro l’Udc, l’IDV (promotore del referendum di abolizione delle Province), il PD, la lista Civica e si è astenuto il Sel.
Tutti d’accordo, tranne l’IDV, ovviamente, nel sostenere l’incostituzionalità dell’articolo 23 del decreto 201 approvato dal Governo Monti, tutti concordi sull’approccio “demagogico” all’argomento “costi della politica” che si “pretende di risolvere con l’abolizione delle Province” ma alla prova del voto minoranza e Udc, quest’ultima dalle fila della maggioranza, hanno sottolineato “i ritardi dell’Upi nell’affrontare il problema, l’insufficienza e la poca incisività delle iniziative assunte, il divario che si è creato con i cittadini” motivando così il voto contrario (astensione del Sel).
La presa di posizione di minoranza e Udc ha sollecitato una provocatoria proposta del consigliere Diego Di Bonaventura del Pdl: “O diciamo che le Province servono e quindi da domani ci impegnano a far comprendere ai cittadini cosa facciamo e perché abolirle sarebbe un errore o diciamo che non servono ma, a partire dall’Italia dei Valori, da domani ci dimettiamo tutti. Ancora una volta il cittadino non capisce questi bizantinismi della politica”.
Il Consiglio provinciale, ieri sera, si è “aperto” a due contributi: quello di Romano Orrù, direttore Dipartimento studi giuridici dell’Università di Teramo e quello dell’architetto Raffaele Di Marcello, funzionario dell’ente, in rappresentanza della Rsu.
Il primo, citando studi economici, giuridici e storici, ha sostenuto la tesi che l’abolizione delle Province comporterà “un aggravio di costi per i cittadini, una seria limitazione dei diritti di rappresentanza delle comunità locali, una risibile riduzione dei cosiddetti costi della politica visto che le Province rappresentano l’1,35% della spesa pubblica complessiva del Paese”.
Se le “Province esistono in tutta Europa, sia negli Stati unitari che in quelli federalisti, e resistono da 150 anni è perché il livello intermedio di Governo è funzionale all’organizzazione democratica e al funzionamento dello Stato” ha chiosato Orrù.
Raffaele Di Marcello, a nome dei dipendenti, ha chiesto “alla politica delle risposte. Serve chiudere le Province? Si è pensato a come riorganizzare la macchina istituzionale e se i servizi funzioneranno meglio o peggio di prima?”. Dal presidente Valter Catarra è arrivata l’assicurazione che sarà organizzato un consiglio apposito per affrontare le questioni relative al personale e al loro futuro aprendo anche un dialogo con la Regione così “come richiesto dalla Rsu”. Nel merito della questione, il presidente Catarra, intervenuto al termine del dibatto consiliare, ci ha tenuto a far rilevare due aspetti: “Un provvedimento o è anticostituzionale o non lo è e noi che rappresentiamo non noi stessi ma le istituzioni dalla Costituzione non dovremmo decidere secondo le convenienze del momento e quelle di parte. Anche per questo ho chiesto e mi sarei aspettato che la Regione impugnasse il decreto come ha fatto il Piemonte. Mi rendo conto che difendere l’stituzione Provincia oggi è impopolare perché ai cittadini è stato fatto credere che così dimuiscono tasse e i costi della politica ma noi che siamo eletti, e che sappiamo che questo non è vero, abbiamo il dovere di rappresentarlo”.
L’assise è iniziata con le parole del presidente del Consiglio Mauro Martino: “L’istituzione Provincia è quella che, negli ultimi anni, meglio è riuscita a ridurre i suoi costi di funzionamento e di rappresentanza come ampiamente dimostrato dallo studio realizzato dalla Bocconi. Invece, cedendo alla demagogia, già ora, il Governo le ha svuotate di funzioni e risorse aprendo una stagione di caos e difficoltà non per gli apparati ma per i cittadini”.
Numerosi gli interventi dei consiglieri e fra questi, D’Agostino del Pd (“Una norma incongrua e incostituzionale ma se siamo arrivati a questo punto è colpa dell’Upi che ha agito in ritardo e male”), Nori della lista Civica D’Agostino (“L’ordine del giorno è concepito male serve solo a prendere tempo e non apre un serio dibattito sulle riforse”), Micheli del Pdl (“se siamo arrivati a questo punto è colpa della mancanza di credibilità e autorevolezza della classe politica, anche locale. Dobbiamo sollecitare i nostri partiti a fare le riforme”), Tracanna dell’Udc (“Le Province sono il capro espiatorio di una dibattito demagogico: bisogna iniziare un serio percorso di riforme istituzionali”), Di Sabatino del Pd (“da sindaco so che le Province servono perché esistono servizi e quindi problemi che possono essere affrontati solo in una logica di area vasta ma oggi rischiamo si passare per quelli che stanno difendendo se stessi”), Di Febbo di Sel (“le decisioni del Governo Monti non ci convincono perché in realtà tagliano solo la democrazia e la partecipazione: quello che va chiesto è la riduzione del numero delle Province, l’istituzione delle Città metropolitane, la revisione delle funzioni degli enti locali”), Mazzarelli (“Siamo l’stituzione territoriale più debole quella più facile da sacrificare e quanto sia vero questo è dimostrato dalla pessima figura rimediata dalla commissione parlamentare che avrebbe dovuto ridurre le indennità dei parlamentari. Dov’era la politica quando in questi 20 anni si creavano centinaia di organismi che competenze frammentarie e sovrapposte: centinaia di comunità montane anche a livello del mare, bacini imbriferi, a Teramo ne abbiamo addirittura due, consorzi per rifiuti e acqua. Migliaia di consigli di amministrazione, direttori generali, presidenti. Dov’era allora quella politica che oggi invoca riforme?”
Scontata la posizione dell’IDV (interventi di Mercante e Sacco), che ha promosso il referendum per tagliare le Province poi dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale: “Le Province sono già inutili proprio l’esiguità della spesa che comportano ne dimostra l’irrilevanza. Chiuderle significherebbe razionalizzare l’apparato amministrativo eliminando una pletoria di politici e burocrati”. E qui è scattata la provocazione di Di Bonaventura: “Allora dimettiamoci!”.