Chieti. “Siamo incerti se per la fine della Villa Comunale si debba parlare di un de profundis clamavi ad te come recita il Salmo 129 e dunque come un ritorno ad un mondo migliore, ossia quello della memoria indelebile del non essere e che quindi nessuno potrà mai più distruggere oppure più semplicemente di un de profundis secondo il senso popolare attribuito alla locuzione latina relativamente a qualcosa che sia irrimediabilmente perduta e di cui non resterà neppure la memoria”.
Così il consigliere Enrico Bucci è intervenuto nella ultima seduta della massima Assise Civica di Chieti con riferimento ai lavori di riqualificazione della Villa Comunale.
“I più – ha proseguito il consigliere Bucci – hanno purtroppo memoria corta, come si suol dire, vuoi perché impegnati nel vivere sempre più difficile, vuoi per atavica indifferenza e sottocultura, e dunque la speranza che si possa continuare a distinguere tra ciò che la villa comunale era e ciò che ne resta oggi sembra molto flebile perchè tutto finirà irrimediabilmente per confondersi nel gran calderone del qualunquismo e dell’opportunismo quotidiano. Tra qualche tempo chi mai si ricorderà che il primo (e unico) giardino di Chieti era nato alla fine del XIX sec. secondo uno schema concettuale preciso, o se si preferisce una moda, che rispondeva a criteri di ostentata occasionalità associata però ad uno stile di vita dove giardino suggeriva scoperta, scoperta di angoli nascosti, prospettive e vedute insolite che neppure il fascismo osò distruggere limitandosi ad un terrazzamento che alla fine abbelliva piuttosto che alterare il concetto di villa pubblica quando si trattò di realizzare quella piattaforma delle adunanze (che ora non c’è più) sulle coperture della Casa dello studente. Per non parlare delle occasioni appunto, dal Palazzo dei Bagni di sontuosa memoria, sorta di ouverture al giardino, alla casina dei tigli (diminutivo e non maggiorativo, casone, com’è oggi quando ha digeriti persino i tigli e invasi i viali e i larghi), al laghetto dei cigni sorvegliato da un improbabile Nettuno, alle fontane, al chiosco musicale, al teatro verde di cui fin dagli anni dell’anteguerra s’era venuta sgretolando la memoria e oggi ridotto ad un’anonima quanto perversa piattaforma da spettacoli (ma quali?). Ma più di tutto stupisce la totale incomprensione dell’essenza stessa del giardino ossia la presenza di viali concepiti secondo la moda (val proprio la pena di dirlo) dei boulevards francesi alla George-Eugène Haussmann quand’era prefetto di Parigi dal 1853 al 1869. Certo si dirà che Chieti non è Parigi ma ogni Cesare ha le sue Gallie, e dunque ognuno primeggia a casa sua: e poi la fontana non fu acquistata in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900 per completare con un segno forte la città che rinnovava, attraverso il suo giardino pubblico, se stessa? E la rettifica (e non sventramento) del Corso Marrucino che fu mai? Non sarà forse che gli amministratori e tecnici di Chieti di allora erano più colti di quelli di oggi? Ma ciò che più conta era quel culte de l’axe che caratterizzò un’epoca fondendosi con la tradizione del giardino all’italiana in quel fenomeno culturale, sociale ed estetico che fu il Tivoli ampiamente compreso e diffuso non solo nella Mitteleuropa ma ovunque il periodo napoleonico aveva diffuse le idee di rinnovamento sociale, civile e urbano che derivava, in primo luogo, dalla Rivoluzione Francese e che il Tivoli integrò ai nuovi gusti. Addio a tutto questo, ad un pezzo di storia della città, addio al Tivoli, addio al culte de l’axe, frammentato in un concentrato di episodi assurdi, quanto gratuiti perché non necessari, che non val la pena neppure di ricordare, un de profundis senza alcun clamavi dunque e nulla più”.