Referendum Acqua: i dubbi del primo quesito e le ragioni del sì

acqua_pubblicaDei quattro quesiti referendari sui quali domenica e lunedì prossimi i cittadini si esprimeranno, il primo è senz’altro il più oscuro. Chi provasse a chiedere in giro lumi sul suo contenuto otterrebbe quasi scuramente questa risposta: l’acqua. Il primo quesito si riferisce all’acqua; e chi vota “sì” è contro la privatizzazione dell’acqua.

Questa risposta non è, però, puntuale. Si dirà: se il cittadino mediamente informato risulta del tutto disinformato, non sarà colpa sua, ma di chi gli passa quelle informazioni. Certo. Ma resterebbe da capire perché questo accade. Azzardo un’ipotesi: forse perché si teme che una spiegazione resa con parole differenti e più precise possa confondere il cittadino e dissuaderlo dall’esercitare il proprio diritto di voto. A mio parere, ci sono comunque valide ragioni perché i cittadini debbano votare “sì” a tutti e quattro i quesiti referendari; limitatamente al primo di essi, vorrei tentare di spiegarne il perché senza dover ricorrere ad argomenti truffaldini. Il primo quesito non si riferisce unicamente all’acqua, ma a tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, con la sola eccezione di quelli relativi alla distribuzione del gas naturale, alla distribuzione dell’energia elettrica, alla gestione delle farmacie comunali e alla gestione del trasporto ferroviario regionale. Esso, inoltre, non chiede esplicitamente ai cittadini di pronunciarsi contro la “privatizzazione” dell’acqua, in quanto un eventuale esito positivo del referendum colpirebbe il tipo di gestione del servizio, ma non la proprietà dello stesso, che è e resterà (formalmente) pubblica. Con il proprio voto il cittadino si esprimerà per l’abrogazione o per il mantenimento in vita dell’art. 23 bis del decreto-legge n. 112 del 2008 (convertito in legge e modificato a più riprese nel 2009), il quale, in buona sostanza, prevede che la gestione dei servizi pubblici locali da parte dei privati costituisca la regola e quella degli Enti locali solo l’eccezione. Secondo quanto si ricava da detto articolo, infatti, un Comune può gestire direttamente un servizio pubblico (c.d. gestione in house) solo a fronte di “situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato”. La domanda che occorre porsi è, tuttavia, la seguente: una volta abrogato l’art. 23 bis, quale regola si applicherà? Certamente non la regola contraria – come pure avevano auspicato i promotori del referendum – e cioè che i servizi pubblici verranno posti “al di fuori delle regole del mercato” ed “affidati ad un soggetto realmente pubblico”. E neppure la vecchia regola contenuta nell’art. 113 del Testo unico degli Enti locali del 2000, in base alla quale l’erogazione del servizio pubblico veniva ricondotta a tre possibili modelli di gestione: pubblico, misto e privato. Un eventuale esito positivo del referendum, lungi dal provocare un vuoto legislativo, comporterà, invece, che i servizi pubblici locali di rilevanza economica (acqua compresa) restino disciplinati dalla normativa dell’Unione europea: la quale prevede che gli enti locali possano liberamente scegliere se erogare direttamente il servizio oppure se affidarne la gestione a privati. Quanto poi ciò, in ragione dei tagli alle finanze che gli Enti locali hanno dovuto subire, costituisca una scelta davvero libera, è questione che – almeno per il momento – non interessa qui discutere.

Enzo Di Salvatore
Docente di diritto costituzionale – Università degli Studi di Teramo


 

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