A breve milioni di utenti Windows si ritroveranno senza il supporto da parte di Microsoft: la decisione del colosso di Redmond è impopolare ma si basa su ragioni valide.
In passato ad ogni aggiornamento di Windows, tutti coloro che possedevano la versione precedente si trovavano senza supporto ed era normale. Questo perché non c’era modo di supportare l’utenza da remoto tramite aggiornamenti e miglioramenti condivisi online e scaricabili da desktop, ma non ce n’era nemmeno l’esigenza.
Se è vero che prima una versione mal riuscita di Windows (pensate ad esempio a Vista) rimaneva piena di bug per sempre, costringendo l’utenza a sopportarla o a cambiare non appena possibile, era anche vero che le possibilità web erano parecchio limitate (ancora c’era l’ISDN o addirittura il 56k nella maggior parte dei casi), dunque ad eccezione di chi con il PC doveva lavorarci in ufficio, le problematiche e i rischi erano limitati e si poteva tranquillamente fare ritorno ad XP senza temere virus e malfunzionamenti.
Oggi questo discorso non è più possibile, tornare ad una versione precedente di Windows senza supporto da parte dello sviluppatore significa riscontrare problemi di compatibilità con i programmi e rischi di sicurezza durante la navigazione o l’utilizzo di piattaforme che richiedono l’accesso ad internet.
Per tale ragione la notizia che a fine 2025 Microsoft interromperà il supporto a Windows 10 – concedendolo solo a chi vorrà pagare il servizio di supporto annualmente – ha fatto infuriare milioni di utenti, anche perché il passaggio alla versione successiva del sistema operativo è gratuita solo formalmente.
La presenza del requisito TPM 2.0 è ciò che ha impedito fino ad oggi a molti di passare a Windows 11. Il blocco all’aggiornamento è stato duramente criticato già in passato, ma le polemiche si sono presto spente perché la versione precedente dell’OS di Microsoft funziona in modo perfetto ed è ancora oggi supportata dallo sviluppatore.
Nel momento in cui non ci sarà più supporto gratuito, l’utenza sarà costretta a pagare un abbonamento o a cambiare direttamente il PC. Il fatto è che questo chip è presente solo nei modelli di processore più recenti e tra l’altro in alcuni è una funzionalità presente ma non resa attiva dal produttore, dunque da sbloccare tramite software. In quest’ultimo caso basta seguire le indicazioni di Microsoft per l’attivazione, in tutti gli altri l’unica cosa da fare è cambiare processore.
Il cambio del processore è fattibile nei PC assemblati dall’utente, poiché in quelli pre-assemblati dal costruttore le componenti sono solitamente customizzate e non compatibili con quelle acquistabili singolarmente, e comunque richiede il cambio della scheda madre e della Ram, componenti che messe insieme raggiungono quasi il costo di un nuovo PC.
Di fatto milioni di utenti a fine 2025 si troveranno costrette a cambiare PC per avere certezza che la propria privacy e il proprio lavoro sia al sicuro. Il perché Microsoft sia così intransigente sul requisito lo ha spiegato il Senior Product Manager di Microsoft Steve Hosking: “TPM 2.0 ricopre un ruolo cruciale nel potenziare l’identità e la protezione dei dati sui dispositivi Windows, oltre a mantenere integro il sistema. TPM 2.0 però aiuta anche a rendere Windows 11 a prova di futuro, aiutando a proteggere le informazioni sensibili man mano che più funzionalità d’intelligenza artificiale arrivano sull’architettura fisica, cloud e sui server”.