Civitella del Tronto, vista da lontano, mi ha sempre dato l’impressione di una locomotiva lanciata a tutta velocità e poi sospesa, per magia, tra cielo e terra, in un incantesimo senza fine.
Non c’è un treno a seguire, solo la locomotiva, come in un mistero da favola. A valle, da nord a sud, la striscia bianca e sinuosa del Salinello, ora pieno d’acqua, che scorre calmo verso l’Adriatico; tutto intorno un degradare di collinette, fino alla fertile Val Vibrata, a due passi dal Tronto, da una parte, e la bonifica del Salinello dall’altra, giù fine al confine tra la spiaggia di Tortoreto e quella di Giulianova.
Abbarbicate sui gradoni di una collinetta da cui si scopre l’azzurro della costa un nugolo di case, divise da vie strette una spanna, danno vita alla frazione di Ponzano. La chiesa di San Flaviano, del XVI sec., testimonia che il borgo è lì fin dalla notte dei tempi. Ora la terribile frana che interessa Ponzano, e che interessa i suoi abitanti, vorrebbe trascinare tutto a valle, a riempire i fossati dove nascono i pioppi, i laghetti di fondovalle ricchi di tinche e carpe che superano il metro di lunghezza. La boscaglia che nasce attorno ai laghetti e ai fossi sono l’habitat ideale della quaglia e del fagiano, in quest’angolo di piccolo paradiso contadino dove arriva molto attutito il clamore della città: in questa pace bucolica tutti i problemi sembrano lontani. Fino a ieri.
Fino all’inizio dell’apocalisse, la frana che improvvisamente si è mossa e non sembra arrestarsi, che ha iniziato a squarciare le case e i terreni, a distruggere tutto quello che si è costruito con i sacrifici della gente, specialmente nel secolo scorso, quando i nostri emigrati, che non si chiamavano migranti, rimettevano periodicamente i propri risparmi per costruirsi la casa in cui vivere una volta tornati.
E le case costruite col boom economico della Val Vibrata degli anni ’60 e ’70, tutti in famiglia impegnati a sacrificare parte del salario guadagnato in fabbrica per realizzare il sogno di una vita, dei genitori come dei figli. Ora la voce corrente dice che è impossibile arrestare la frana, che è impossibile salvare le case e che la gente deve andarsene, ricominciare a vivere da un’altra parte. Le istituzioni, locali ma soprattutto nazionali, non sembrano avere una soluzione immediata, tutto è devoluto al tempo, perché il tempo risolve tutti i problemi, in questa impasse politica di un governo che si dichiara presente ma in realtà è sempre più lontano: “non è così che funziona” ha dichiarato il commissario alla Ricostruzione Vasco Errani.
Rivolto verso la marina, a Ponzano, appena sotto la strada provinciale che porta a Giulianova, si erge, più alto di tutte la case, Palazzo Rosati. Cesellato come un gioiello prezioso da artisti del tempo, sotto la guida del proprietario ing. Vincenzo Rosati, personaggio di eccezionale talento, pittore, archeologo, direttore e fondatore di scuole in Italia e all’estero, ora è abbandonato al disfacimento, benché conservi intatto il fascino di una filosofia che sembra fondere in un tutt’uno il sacro ed il profano: le teste di leone con anello che rivestono in bassorilievo il frontale del palazzo sembrano esprimere un anelito di sopravvivenza, la certezza che ha la pietra di restare eterna.
Molti dicono che Ponzano sia destinato a scomparire. C’è invece da augurarsi che la gente resista, che trovi un simbolo come stimolo per resistere, al quale aggregare gli sforzi per ricostruire il futuro. Palazzo Rosati e la grinta che ancora esprime la propria architettura, i suoi colori consumati ma ancora decisi, il rosso bordeaux e il blu di persia, gli affreschi del salone interno che ritraggono il rito della vendemmia con brune contadine dai capelli corvini rapite dal baccanale di una danza propiziatrice, potrebbe essere il simbolo necessario per scuotersi dallo scoramento e ricominciare. Ma non altrove: proprio qui a Ponzano!
Pasquale Felice