SPECIALE Il porto di Pescara chiuso da un anno: la marineria unita per restare a galla-FOTO

marineria_scrittaUn anno giusto oggi. Il 13 febbraio del 2012 la Capitaneria di porto ha firmato l’ordinanza che vieta ai 56 pescherecci della flotta pescarese di entrare e uscire dal porto, reso impraticabile da un dragaggio non eseguito. Un porto insabbiato fino all’inverosimile da una montagna crescente di detriti naturali trasportati dal fiume e lasciati ad ostruire il fondale della foce. Una darsena con l’acqua alta quanto una gamba, un canale ricoperto da una colata di errori amministrativi e impedimenti burocratici.

Per i politici è stato e rimane l’appetitoso tema utile per riempirsi la bocca per un lungo periodo. Per gran parte della cittadinanza è un problema lontano e inavvertito, relegato ad una realtà aliena alla vita della città terricola. Come dimenticarsi di avercelo un porto, come far finta che lo stesso nome della città derivi dai pastori narrati da D’Annunzio. Per loro invece, per i 166 pescatori della marineria di Pescara, è stata la ragione di mesi e mesi di battaglia contro le istituzioni. Privati istituzionalmente del diritto al lavoro. Perché le istituzioni hanno lasciato che la strada per raggiungere la loro bottega venisse travolta da una valanga di sabbia prevista e non arginata. “Faranno subito”, avevano pensato all’inizio i marinai. Qualche giorno di pazienza si può sostenere, al massimo qualche settimane di attesa tra i più classici rimpalli di responsabilità. Passa un mese, e le navi si fermano. Ne passano due, e i pescatori stringono la cinghia. Ne passano tre, i fornitori presentano i conti. Quattro mesi, le bollette si accumulano. Cinque e il mutuo pressa. Sei e la banca non accetta più la scusa dell’emergenza. Sette, otto, nove, dieci, undici. Dodici mesi. Il marinaio ogni giorno è andato ugualmente sulla banchina, per guardare il fiume e vedere il fondale a pelo d’acqua. Per sputare su quella sabbia in eccesso che gli impedisce di lavorare e che sommerge il suo presente e il suo futuro. Ogni giorno ha chiesto perché gli si impediva di lavorare ma non ha mai ottenuto risposta. Nessuna. Quindi è rientrato a casa, senza il coraggio di guardare in faccia la propria famiglia, seppur di colpe non ne ha mai avute. Questo e non solo. Loro, veraci e sanguigni, non sono rimasti solo a guardare con la lacrimuccia all’occhio le barche attraccate e le reti arrotolate nella stiva. Si sono dannati l’anima, hanno rivoltato più volte la città, hanno manifestato con forza e veemenza, finanche superando il limite della legalità per far capire a Comune, Provincia, Regione, Provveditorato e Ministeri che il lavoro è cosa sacra, e come tale non si tocca. Dopo un anno i palazzi con la maiuscola pare l’abbiano capita e una ‘grattatina’ al fondale hanno deciso di darla, anche se non si può ancora sapere quando le barche potranno riprendere la via del mare. Né quanto, svanito l’effetto “cucchiaino” del misero dragaggio programmato, il fiume ci metterà prima di intasare nuovamente il porto.

Intanto sono passati una Pasqua e un Natale. Centinaia di migliaia di euro di incassi perse. Ora si prospetta un’altra Pasqua nient’affatto da festeggiare. Per loro che sulle festività da sempre hanno puntato per raccogliere quanto più possibile per tirare avanti nei periodi di magra. Cenoni e vigilie imprescindibili dal pesce. Perfino i presepi hanno come personaggi i pescatori. Ma alla foce del Pescara il presepe si è dovuto fare vivente. Dove? Via Raffaele Paolucci, angolo con via Verdi. “M’bacce a lu porte”, davanti al porto, rispondono se si chiedono indicazioni. Basta percorrere il lungofiume seguendo le banchine del molo nord verso il mare. Alcune scritte indicano il punto d’arrivo. “Una volta…lavoravo”, si legge a vernice spray rossa sul marciapiede accanto all’attracco di un peschereccio. Esattamente di fronte, un altro graffito in linguaggio autoctono: “Ardetc lu fiume”, ovvero “Ridateci il fiume”. La scia della stella cometa si ferma su quel muro, l’edificio che ospita l’Associazione Armatori Pescara. La cassaforte dell’unico elemento di speranza per dei lavoratori messi in ginocchio: la solidarietà fraterna. Dentro quelle mura corrose dalla salsedine risiede uno degli ultimi esempi pratici di ciò che una volta erano le società operaie di mutuo soccorso. Di aiuti statali, fin qui, se ne sono visti ben pochi. La crisi, quella generale, ha chiuso i rubinetti degli ammortizzatori sociali, che finora hanno coperto con poche centinaia di euro a testa mesi e mesi di inattività forzata. Ma loro, che sono abituati a rischiare la vita l’un per l’altro, che da secoli hanno nel sangue lo spirito di fratellanza, si fa prima ad aiutarsi che a farsi aiutare. Per chi quando esce in mare sa che solo se può contare sulla mano del compagno ha possibilità di riportare a terra pagnotta e pelle, il modo migliore per tirare avanti è smettere di piangersi addosso e farsi forza a vicenda. Così, chi ha qualcosa, nonostante ci siano mogli e figli da campare, lo divide con la famiglia del mare. E chi non ha, fa. Hanno cominciato così a fine novembre, con un gazebo di protesta, un presidio permanente che voleva manifestare la loro condizione. Un po’ come a dire: “Siamo in mezzo alla strada”. Sono stati sotto i teloni per un mese, ogni giorno, fin quando l’inverno più rigido li ha costretti a rifugiarsi sotto un tetto. E da due mesi ogni giorno vivono, anzi, sopravvivono insieme. Mangiano, discutono, ridono, scherzano. Lottano. Si sostengono. Gli armatori a turno mettono in tavola il pranzo per chi lavora per loro, considerandoli più figli che dipendenti. Non che a loro, agli imprenditori della pesca, vada meglio. Anzi, sono loro che lottano con fornitori, tasse e banche che non hanno lo stesso spirito solidale. Eppure non sanno voltare le spalle a chi, quando si poteva lavorare, ha sempre risposto presente alla loro chiamata. Del presepe queste persone raccolte alla stessa tavola, oltre allo spirito (molto più nobile di tante chiese), hanno i volti, le espressioni, le scenografie. L’essenza. Sensazioni che si riescono a comprendere solo se ci si siede a quella mensa.

Bussare a quella porta è superfluo: la sede è sempre aperta e pronta ad ospitare chiunque, senza che nemmeno si chieda permesso. Una nuvola di fumo, MS o Muratti tra le dita di quasi tutti, funziona da portale spazio-temporale per un altro mondo. Alla fine del teletrasporto si viene investiti da un conciliabolo fitto e tessuto rigorosamente in dialetto. Francesco, Massimo, Mario, e ancora Mario e ancora Massimo e ancora Francesco. Nomi semplici e tradizionali, passati da nonno a nipote da generazioni, ripetuti e diffusi al punto che i soprannomi diventano indispensabili per distinguersi: Cilletto, Spadino, Nasone e via nominando. C’è chi vuole salpare all’arrembaggio degli altri porti, chi commenta bestemmiando la campagna elettorale, chi promette il voto “Solo a chi s’arcorde di me”, chi si ostina a programmare la manutenzione a bordo di una barca che non salperà e chi, altrettanto a malincuore, chiede quale sia il prezzo del pesce sul banco degli altri scali. Un coro però, data l’ora di pranzo, esplode all’unisono e si rivolge a quella faccia sconosciuta: “Iamme, firmete a magnà”. Il rifiuto non è contemplato. Spontaneo adeguarsi alla regola non scritta e diventare anello di una catena di mani che unisce tavolini, passa sedie, piatti e posate, mentre il profumino proveniente da un pentolone indica la strada per il cucinotto dove un omaccione con la “parnanza” si impegna a rimestare con il “cucchiarone” di legno. Il conciliabolo si dirama ma non si interrompe, piccoli gruppetti di tre o quattro persone si distribuiscono ai capi di una tavolata lunghissima, concentrati tanto a discorrere quanto ad apparecchiare. In pochi minuti ti ritrovi seduto con un piatto di plastica sotto al naso e il bicchiere rosso fino all’orlo. “Quadritt in brodo di carne”, annuncia lo chef. “Oggi t’è andata male, se venivi domani trovavi lu pesce”. “E invece è andata bene”, si risponde dopo il primo boccone, e non solo per riverita educazione. Mentre si mangia l’atmosfera muta radicalmente: il discorso è uno per tutti e lo sguardo di tutti segue con profondo rispetto gli occhi di chi parla. Uno alla volta e senza gerarchie, che si riferisca la notizia più importante o che si spari la più grossa cazzata, la ventina di persone sedute a rettangolo ondeggia omogenea per ascoltare con la vista chi sta parlando. Colpisce come, persone che “fanno la fame” fanno a gare per riempirti il piatto appena si svuota. Pietanza umile ma apprezzabile, cucinata con quel gusto in più che nessuna spezia potrebbe mai dare. La dispensa offre patate e rape, doni che i contadini del mercato lì accanto vengono a lasciare quasi ogni giorno. Ma è l’armatore di turno che quotidianamente compra il vino, i sottaceti, il pane, l’acqua e qualche gelato per ‘viziare’ un po’ tutti.

Perché? Perché stare qui costretti con i giacconi addosso e le stufette a gas per riscaldarsi, anziché starsene in pantofole a casa, seduti a guardare i figli crescere e a farsi coccolare lo stomaco dalle doti culinarie della moglie? Perché c’è chi una famiglia a casa non ce l’ha, e starsene dodici mesi in passiva solitudine farebbe deprimere anche l’uomo più forte del mondo. Perché chi riusciva a campare solo grazie allo stipendio da “imbarcato” e ora non ce l’ha più, difficilmente riesce e a scaldare casa e a riempirsi un piatto al giorno. Questi, quelli che non hanno, qui fanno, non riescono proprio a rimanere indebitati: cucinano, lavano, apparecchiano, puliscono. Restituiscono. Perché sulla barca si sta tutti insieme: che si peschi e si lavori o che si lotti per tenerla a galla, anche fino ad affondare, ma sempre insieme. Quell’unione commensale è sbalorditiva: uniti, fino a muoversi allo stesso tempo quando qualcuno parla. E sembra proprio la tavolata a costituire l’elemento collante, perché appena finito il pranzo si riformano immediatamente i gruppetti del conciliabolo. Divisi ma comunque particolari di uno stesso scenario. Come un presepe. Uomini dai tratti naturali talmente marcati che fanno il paio con i dettagli caratteristici che i maestri presepai accentuano ad arte sulle statuine. Le mani grandi e callose consumate dalle cime, gli occhi profondi di chi ha visto l’alba ogni giorno, le rughe solcate dalle tempeste attraversate, le smorfie, i termini, i gesti e le scaramanzie che ogni micro-mondo conserva gelosamente. Gli sguardi: intensi e contrapposti. Quelli che si sforzano di mantenersi fieri, sostenuti dalla speranza all’orizzonte di poter tornare a navigare oltre l’imboccatura di levante. E quelli che puoi sorprendere a fissarsi sullo stesso orizzonte, ma persi sconsolati nel silenzio senza riuscire a trovare un obiettivo da guardare. Tutti, però, sanno che spostando lo sguardo verso il compagno accanto a sé possono trovare sempre un porto sicuro. Così, solo così, questi uomini si tengono a galla da un anno su quella terra ferma che non è il loro posto.

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Daniele Galli

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