Bimbo di 7 mesi abbandonato alla stazione di Pescara: la Cassazione lo riaffida alla madre

Dimenticò il figlio di sette mesi alla stazione di Pescara, la Cassazione lo restituisce alla madre annullando l’allontanamento stabilito dalla Corte d’Appello.

Non è giusto togliere un bambino di sette mesi alla mamma che, per una sola volta, in una situazione di grave difficoltà lo ha lasciato momentaneamente in stazione, senza dare alla donna – già afflitta da una vita difficile – una ‘prova d’appello’ con la possibilità di essere aiutata dai servizi sociali e consentire al bimbo di crescere in sicurezza e alla madre di maturare senza subire il trauma della separazione.

Lo sottolinea la Cassazione che ha accolto il ricorso di una ragazza sudamericana che nel 2012, a l’Aquila, aveva avuto un figlio da un italiano con una storia familiare di violenza e disagio. La coppia si era in breve disgregata e il bebè era rimasto alla mamma in difficoltà economica e psicologica sebbene aiutata dai familiari. L’iter di adottabilità del piccolo – affidato ai servizi sociali di un comune del Sangro – era iniziato dalla segnalazione della polizia ferroviaria “di un grave comportamento abbandonico in danno del minore che era stato ritrovato piangente nella carrozzina, nella stazione di Pescara, per un momentaneo allontanamento della madre ed erano state riscontrate infiammazioni da scorretto uso del pannolino”.

Solo per questo fatto, per quanto grave, e sulla base di una perizia che aveva stabilito la non adeguatezza di padre e madre, era stato dato il via libera a “un intervento attuato in forma coattiva mediante l’ausilio della forza pubblica” e il bimbo era stato portato via dalla casa materna. Alla madre era stata data la possibilità di vederlo per appena un’ora alla settimana a condizione che ci fosse anche il padre del bimbo con i suoi genitori, condizioni difficili da realizzare.
Contro l’adottabilità decisa dai giudici de L’Aquila, la mamma si è rivolta alla Cassazione sostenendo che era stata penalizzata “dal fattore socio economico” e che i servizi sociali non avevano svolto “alcun ruolo proattivo teso a verificare la possibilità del reinserimento del minore nella sua famiglia di origine”.

Inoltre c’era stata una “ingerenza ingiustificata e sproporzionata del potere pubblico” nella sua vita privata e familiare. La Cassazione le ha dato ragione mettendo in dubbio “la reale necessità e proporzionalità di un intervento così grave e invasivo come quello posto in essere con il prelievo forzato” del piccolo.

Una misura del genere – conclude la Cassazione rinviando il caso in Corte di Appello – non può essere “basata esclusivamente sull’episodio abbandonico, senza un necessario inquadramento della condotta della madre nel contesto della sua situazione esistenziale del momento e senza che a tale intervento di urgenza sia stata ricollegata quella necessaria predisposizione di misure di verifica e di sostegno alla possibilità di recupero della funzione genitoriale”.

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