Processo Bussi: depositato ricorso procura in Cassazione

Bussi sul Tirino. La procura di Pescara ha depositato il ricorso in Cassazione contro la sentenza del processo riguardante la mega discarica di Bussi, che si è concluso il 19 dicembre scorso davanti alla Corte d’Assise di Chieti con l’assoluzione di tutti e 19 imputati (quasi tutti ex amministratori e vertici della Montedison) relativamente al reato di avvelenamento delle acque.

Il disastro ambientale è stato invece derubricato in colposo e, quindi, dichiarato prescritto. Il ricorso dei pm Anna Rita Mantini e Giuseppe Bellelli per chiedere l’annullamento con rinvio della sentenza riguarda tutti gli imputati tranne Maurizio Piazzardi per cui l’accusa in primo grado aveva chiesto l’assoluzione.

Nello specifico, i pm nel ricorso di 87 pagine sottolineano che “la Corte si spinge ad affermare che, anche quando concrete opere di emungimento della falda indichino, con certezza, che quella falda, e’ considerata risorsa idrica effettivamente destinata al consumo umano, l’avvelenamento deve essere valutato non in qualunque punto della falda, ma (in chiara violazione della norma penale in discorso) nel punto immediatamente precedente o pressochè coincidente con l’emungimento” .

Secondo i pm questa conclusione “contiene un evidente errore interpretativo, tale da smentire e contraddire la stessa premessa da cui la Corte e’ partita. L’emungimento indica soltanto che destinazione vi è stata. Non dice affatto che l’avvelenamento debba essere posto in essere qualche centimetro prima dell’emungimento medesimo. D’altra parte, una volta che l’acqua di falda destinata all’alimentazione umana (per essere tale falda la fonte della captazione a valle) sia stata “avvelenata”, così come la Corte ritiene, non ha importanza che, accidentalmente, quell’acqua, seguendo una strada naturale, sulla quale la volontà umana non ha influito, si sia, occasionalmente, depurata di concentrazioni più alte del “veleno”.

“Non è chi non veda peraltro come l’interpretazione elaborata dalla Corte d’Assise – scrivono i pm – non sia semplicemente restrittiva ma piuttosto sia contra legem, in quanto non tiene conto del fatto che l’art. 439 c.p., nell’identificare l’oggetto materiale della condotta, non si limita a parlare di “acque destinate all’alimentazione”, ma precisa, altresì, che deve trattarsi di acque che ancora non siano state attinte per il consumo.

Ebbene, i giudici della Corte d’Assise, ove ritengono che la valutazione della pericolosità sia da circoscriversi al solo punto di attingimento, leggono la norma come se in essa fosse inserito l’inciso ‘quando sono attinte’ anzichè ‘prima che siano attinte'” . Tale interpretazione, però, secondo i pm, “stravolge la lettera e la ratio della norma incriminatrice, finendo quasi per abrogarla: eliminando proprio la parola ‘prima’ contenuta nell’art. 439 , si addiviene ad interpretare la norma come se punisse chi avvelena le acque destinate all’alimentazione ‘nel momento in cui vengono attinte e prima che siano distribuite'”.

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