Tre giudici, tra cui due donne, la Presidente della sezione Lavoro, Rita Sannite, Maria Luisa Ciangola, nelle vesti di Consigliere e Luigi Santini, di Consigliere relatore hanno confermato la condanna del Miur per discriminazione di genere e di età.
La vicenda è approdata davanti alla Corte abruzzese dal Tribunale di Avezzano, in cui, ben 5 giudici, avevano riconosciuto, nelle complesse e articolate fasi del procedimento cautelare ed ordinario di I grado, la sussistenza di norme pensionistiche discriminative ai danni di due docenti, una di scuola primaria e una di scuola secondaria.
Questo il fatto. Nel 2014 due docenti abruzzesi di 65 anni avevano chiesto di rimanere in servizio per totalizzare più contributi, pur avendo raggiunto l’età per il trattamento di vecchiaia. Prima erano state autorizzate a rimanere in servizio, poi la marcia indietro a causa del decreto legge 90/2014 del governo Renzi. Ma i docenti uomini, per i quali i requisiti di accesso alla pensione non prevedevano accessi agevolati come quello per le donne che avessero compiuto 61 anni, avevano potuto fruire del nuovo limite pensionistico di 66 anni introdotto dalla riforma Fornero, mentre il personale di sesso femminile era collocato in quiescenza un anno prima, col vecchio limite ordinamentale di 65 anni. Nella specie si erano accumulati gli effetti di due norme: la legge Fornero e il decreto 90/14, che, per svecchiare la pubblica amministrazione, aveva disposto l’abolizione dell’istituto del trattenimento in servizio.
Le docenti ritenevano ingiusto essere collocate in pensione ad un’età diversa (65 anni) da quella dei colleghi uomini (66 anni) per il solo fatto di aver compiuto 61 anni entro il 31 dicembre 2011, come disposto dal terzo comma dell’art. 24 del decreto legge Fornero, ossia dalla norma regolativa della transizione dal vecchio al nuovo regime pensionistico, espressamente confermata in questo senso interpretativo dall’art. 2 del d.l. 101/2013.
Si erano così rivolte agli avvocati Salvatore Braghini e Renzo Lancia della UIL Scuola di Avezzano per denunciare una tale ingiustizia, in quanto il combinato disposto normativo impediva loro di prolungare la permanenza a scuola al fine di incrementare la bassa quota dell’anzianità di servizio maturata.
La Corte d’appello aquilana ha confermato in toto l’impianto delle motivazioni del Tribunale avezzanese: l’impossibilità per le dipendenti donne di protrarre il rapporto di lavoro fino all’età di 66 anni – come introdotta dalla riforma Fornero – così da totalizzare un maggior ammontare di contributi su cui parametrare la pensione è una discriminazione e come tale impone la disapplicazione del terzo comma dell’art. 24 del d.l. n. 201/2011 (pur correttamente applicata dal MIUR) unitamente alla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 2, quarto comma, d.l. n. 101/2013, come esigono i Trattati dell’Unione Europea in caso di violazione di una normativa comunitaria self executing.
Una vittoria per le due donne, messa però in discussione dopo pochi giorni dall’appello proposto dal Ministero, che, con un articolato ricorso, sosteneva la correttezza dell’operato dell’amministrazione, affermando che la normativa, speciale ed inderogabile, fissava un’eguale limite ordinamentale pensionistico nel settore pubblico per uomini e donne e che, comunque, la legge applicata alle due docenti dall’amministrazione non discriminava le donne ma le favoriva anticipandone l’uscita dal lavoro.
Non così, per i giudici della Corte d’appello, in quanto – spiegano in sentenza – la discriminazione emerge dallo stesso elenco del personale dell’ambito territoriale della Provincia di L’Aquila prodotto dalla difesa erariale, da cui risulta che i docenti uomini sono stati collocati a riposo all’età di 66 anni mentre le donne a 65 anni, talché “il trattamento di favore riservato alle dipendenti di sesso femminile di poter essere collocate a riposo con una minore età anagrafica si è tradotto in una loro penalizzazione sotto il profilo del futuro ammontare della pensione”.
Una delle due insegnanti era stata reintegrata in servizio mentre l’altra ha ottenuto un risarcimento di 12 mensilità.
“L’amministrazione – commentano gli avvocati Braghini e Lancia – aveva preso una decisione sulla testa delle lavoratrici: un accesso facoltativo al diritto alla pensione si è tramutato illegittimamente in un obbligo, tanto che ben 8 Giudici nei due gradi di giudizio hanno costantemente dichiarato l’illegittimità del collocamento in pensione d’ufficio e condannato il Ministero, anche al pagamento delle spese legali”.
Il problema – secondo i due legali – risiede proprio nell’effetto discriminativo riconosciuto dalla Corte territoriale: “La norma ha creato una disparità di trattamento con i colleghi uomini che a parità di requisiti di età e di contributi hanno potuto fruire del nuovo regime previdenziale precluso alle dipendenti di sesso femminile”.
Un aspetto ancor più rilevante della vicenda è che la prima pronuncia del Giudice del lavoro di Avezzano, un’ordinanza cautelare del 2015, ha fatto scuola, determinando altre pronunce cautelari di ripristino in servizio da parte numerosi Tribunali d’Italia, e la questione oggi è stata definitivamente archiviata con una sentenza della Corte d’appello.