“Tutto diventa possibile a Castel del Monte. Finiamo col creder alle vecchine che ci narrano di certe anime sante apparse”. Comincia così il racconto di Pasquale Scarpitti, pubblicato a metà ‘900 sul Giornale della Marsica. E a distanza di oltre sessant’anni sono migliaia quelli che finiscono per assecondarlo, dopo aver partecipato alla XVIII edizione de ‘La notte delle streghe’.
Circa 3500, ad essere precisi, quelli che ieri notte hanno preso parte alla più emozionante manifestazione dell’estate abruzzese, arrampicandosi da tutta la regione sui 1300 metri d’altitudine del paese alle soglie di Campo Imperatore.
Una nottata a caccia di tradizioni, ancor prima che di streghe, ripercorrendo le orme delle più antiche credenze, tramandate nei secoli, di bocca in bocca, da nonne a nipoti. Ciò che una volta l’ignoranza produceva, oggi è diventato tesoro della memoria. Ciò che una volta affascinava cronisti e scrittori d’oltre Manica, oggi incanta l’uomo moderno. “Crede alle streghe, prima c’erano”, riprende lo scritto di Scarpitti, “Macola l’ultima, quella che dalle pupille rifletteva immagini capovolte, quella è morta. Quanto entrava in casa si precipitavano a riempirle il grembiule di ogni ben di Dio per ingraziarsela”. Parole che paiono difficile da capire a chi non si è lasciato inghiottire dai vicoli del borgo medievale per farsi suggestionare dalla rievocazione che l’associazione culturale La notte delle streghe allestisce, ormai da diciotto anni, ogni notte del 17 agosto (meglio se capita di venerdì) per raccontare come un tempo si credeva all’esistenza di streghe e riti oscuri capaci di far ammalare, morire e, si sperava, guarire i bimbi ridotti in fin di vita da malattie all’epoca orfane della più moderna medicina.
“Castel del Monte: paese di donne lasciate sole dai pastori nei lunghissimi mesi invernali a colloquio con il vento, le streghe e le nebbie del fondo valle che sembrano il mare”: il giornalista Scarpitti aveva già capito su quale terreno era nata la malerba della credenza nelle streghe. Decenni prima, nel 1928, la scrittrice anglo-italiana Estella Canziani si era già abbandonata, in un viaggio nel Bel Paese, ai racconti dei castellani del primo ‘900. “I contadini”, scriveva nel libro Attraverso gli Appennini e le terre degli Abruzzi, mi raccontarono delle streghe che, dopo essersi cosparse di grasso, entrano nelle case attraverso il buco della serratura per succhiare il sangue dei bambini piccoli assumendo le sembianze di un gatto o di un cane”. Dicerie talmente diffuse da finire anche nei diari dei pastori-poeti autoctoni Domenico Pezzi e Vincenzo Giuliani. Dalle testimonianze di questi “letterati analfabeti” autoctoni di fine ‘800, i membri della talentuosa associazione culturale hanno allestito una rappresentazione teatrale che lascia il segno nel cuore di chiunque ha la fortuna di assistervi.
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Nessun rogo da Santa Inquisizione, nessun sabba nero: immaginate di sedervi sul pavimento a gambe incrociate, con la bocca aperta e lo sguardo all’insù ad ascoltare vostra nonna che vi racconta come si toglieva il malocchio ai tempi suoi. A noi è capitato, all’ora del tramonto, di incrociare una donna sull’ottantina, seduta sull’uscio di una casa che si affaccia sulla piazza gremita di gente fin dalle prime ore del pomeriggio: “Questi ci vengono da Roma a sentire come le streghe si succhiavano i bambini, ma pure a mia sorella l’hanno fatto il rito quand’era piccola”. E’ proprio il rito dei sette sporti (ru rite de’ re sette sporte) a costituire la trama dello spettacolo: il rituale che le donne di una famiglia compivano quando un bambino si ammalava e non si riusciva a farlo guarire. La madre, le sorelle, le vicine di casa (le commari) e la madrina di battesimo (la commara paccuta), dopo che il medico condotto aveva fallito ogni tentativo e anche la benedizione del prete non aveva prodotto risultati, vegliavano il bimbo nella culla per nove notti di seguito. Alla fine della novena, a mezzanotte, prendevano le vesti del piccolo malato e si incamminavano per una processione silente, interrotta solo dalle litanie (La Madonna m’è la mamma, San Giuseppe m’è lu patre…), che percorreva i vicoli dell’antico Ricetto per attraversare sette archi (gli sporti). In finale, si arrivava ad un crocevia, al centro del quale il gruppetto mistico metteva i panni del bimbo, dandogli fuoco e battendoli con mazze di legno e accette: così si cercava di scacciare via lo spirito della strega che aveva infestato il piccolo, succhiandogli la linfa e la vita.
Le rare e fortunate coincidenze di rinsavimenti hanno fortificato, nel tempo, la fede nel rito dei sette sporti. Ignoranza, appunto, comprensibile in un popolo che duecento anni fa viveva racchiuso tra i monti. Aggravata e alimentata dalla solitudine delle donne: per diversi mesi i pastori castellani partivano lungo il Tratturo Magno, lasciando consorti e figliate numerose tra la neve e la fame. Qui dilagavano le dirette conseguenze della scarsa alimentazione e la fantasia di chi, anche per puro svago, inventava i più improbabili vaneggiamenti. La vecchina più gobba e solitaria diveniva il capro espiatorio della noia e dell’intolleranza. L’invidia, invece, colpiva chi ripercorreva il tratturo al contrario insieme ai pecorari: sovente, a primavera, i più giovani riportavano dalla Puglia e dal pescarese qualche sposa forestiera. L’autunno successivo, puntualmente, erano già diventate streghe: quelle più belle, rimaste sole con la nuova transumanza, attiravano le attenzioni dei maschi rimasti a Castel del Monte, e la rabbia delle rispettivi consorti. Quelle più povere, o le numerose vedove, cercavano di sopravvivere chiedendo carità porta a porta: la povertà diffusa concedeva loro ben poco e altrettanto poco ci si metteva ad associare il rifiuto di un dono alla vendetta della strega. Se il giorno successivo il bimbo della casa dove era passata la questuante beccava la dissenteria, non era stata l’acqua del pozzo, bensì quella forestiera ad essersi trasformata nottetempo in farfalla per entrargli nella culla e “succhiarselo”.
A mettere tutto questo in scena sono i moderni castellani doc, tutti attori non professionisti ma abili al punto da far perdere allo spettatore il confine tra recitazione e realtà: uomini, donne e ragazzi che fin da piccoli hanno sentito dai propri avi come si faceva a riconoscere una strega, come si faceva a diventarlo e come si provava a combatterle. Uno spettacolo d’effetto avvantaggiato dalla scenografia naturale composta dagli scorci di uno dei borghi più belli del mondo: è il nucleo abitato più antico del paese, infatti, ad ospitare le scene che il pubblico, diviso in gruppi, attraversa a piedi, scortato dai figuranti in costume. I dialoghi, colorati da un dialetto introvabile in nessun’altra località, divertono e appassionano anche i più restii ad accantonare la prosa più forbita. Costumi, luci, musiche (dal vivo), danze e dettagli di scena, allestiti da una regia ogni anno più accurata, confezionano un kolossal a cielo aperto, illuminato dalla luna che si riflette sul Gran Sasso.
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Qualcosa difficilmente etichettabile come “manifestazione”, “spettacolo” o “rievocazione storica”. Solo abusando del termine “incantesimo” si può descrivere come un luogo reale, grazie alla determinazione di pochi volontari, riesca a trasportare per una notte migliaia di persone in un mondo incantato e in un tempo andato. Tanti scelgono di affidarsi a Castel del Monte per questo viaggio: pochissimi, però, vogliono tornare alla realtà dopo aver attraversato l’ultimo dei sette sporti. Così, quel rito si ripete ogni notte del 17 agosto. Ancora, e ancora, e ancora, e ancora… .
Daniele Galli
Foto: Alessandro Tucci (guarda il servizio integrale su Flickr)