L’Aquila. L’incidente di Fukushima ha indirettamente fornito un’opportunità per migliorare la nostra conoscenza dei processi che regolano il trasporto e la rimozione degli aerosol atmosferici. Ciò è stato reso possibile mediante analisi correlative tra i risultati di modelli numerici di atmosfera e misure in situ su scala globale, relativi alla concentrazione su stazioni a terra del Cesio 137 e Xenon 133 emessi in atmosfera dall’impianto di Fukushima dopo l’incidente seguito al devastante tsunami dell’11/03/2011.
Una cooperazione internazionale che ha coinvolto 19 gruppi modellistici dell’atmosfera da centri di ricerca in tutto il mondo, tra cui anche quello dell’ Università dell’Aquila coordinato dal Prof. Giovanni Pitari del Dipartimento di Scienze Fisiche e Chimiche, ha studiato la capacità (ed i limiti) dei modelli numerici nel riprodurre le misure di Cesio 137 e Xenon 133 rilevate da una rete globale di stazioni e soprattutto la loro evoluzione temporale nei mesi seguenti l’incidente.
Il lavoro a cui il gruppo modellistico dell’Aquila ha contribuito è stato recentemente pubblicato in una delle riviste leader nel settore della fisica e chimica dell’atmosfera (Kristiansen et al.: “Evaluation of observed and modelled aerosol lifetimes using radioactive tracers of opportunity and an ensemble of 19 global models”, Atmospheric Chemistry and Physics, Vol. 16, pag. 3525-3561, doi: 10.5194/acp-16-325-2016, Marzo 2016. Coautori dell’Università dell’Aquila: Giovanni Pitari e Glauco Di Genova).
Nello studio si mostra come la persistenza in atmosfera degli aerosol di solfato trasportati su lunga distanza sia mediamente maggiore del 50% rispetto a quanto previsto dai modelli (con deviazioni ancora maggiori in Artico), evidenziando quindi un tempo di vita medio degli aerosol atmosferici sensibilmente più lungo di quello finora considerato attendibile nella comunità scientifica. Questo risultato di conseguenza aumenta il “peso” degli aerosol atmosferici nei problemi di potenziale impatto climatico e di inquinamento e qualità dell’aria, con rischio di effetti legati al trasporto atmosferico di inquinanti da siti remoti e non più semplicemente effetti legati ad emissioni locali.
Dall’impianto di Fukushima sono state rilasciate in atmosfera quantità rilevanti di Cesio 137, Xenon 133 e Iodio 131. Mentre lo Xenon 133 è essenzialmente un gas tracciante passivo, la cui rimozione è governata dal decadimento in Cesio 133 (con tempo di vita pari a 5.2 giorni), il Cesio 137 tende invece a formare una mistura eterogenea con aerosol di solfato. Viene quindi trasportato con essi su lunghe distanze e rimosso essenzialmente per deposizione in pioggia, data l’elevata solubilità di questi aerosol.
L’attività del Cesio 137 rilasciato in atmosfera al momento dell’incidente è stimata essere tra il 10% ed il 20% di quella dovuta all’incidente di Chernobyl, mentre l’attività del Cesio 137 rilasciato nell’oceano e depositato al suolo eccede la stessa quantità relativa all’incidente di Chernobyl.
L’analisi dei dati rilevati in atmosfera da siti di misura distribuiti su tutto il globo, evidenzia un trasporto atmosferico del Cesio 137 verso l’intera costa ovest degli Stati Uniti che, con livelli decrescenti, interessa gli interi Stati Uniti, il Nord Atlantico e l’intero emisfero Nord. Anche la deposizione al suolo evidenzia un sostanziale interessamento della costa Ovest degli USA.
Dal trasporto oceanico si calcola che la maggiore quantità di Cesio 137 è stata rilasciata in acqua. E’ comunque da evidenziare come la concentrazione attuale sia in atmosfera che in acqua sia di alcuni ordini di grandezza inferiore a quella massima tollerabile, quindi non sono presumibili effetti ambientali o sulla salute significativi. Per quanto riguarda l’Italia, la rete distribuita dell’Enea ha misurato concentrazioni atmosferiche di radioattività (relative a tutti i radioisotopi emessi) globalmente inferiori ad 1 mBq/m3, decrescenti da Nord a Sud, mentre la deposizione al suolo ha registrato un picco di 18 Bq/m2 a La Spezia, entrambe dovute principalmente a Iodio 131. Sia le concentrazioni atmosferiche che la deposizione sono risultate globalmente tre ordini di grandezza inferiori rispetto a quanto osservato dopo Chernobyl.