Professore, spesso sentiamo parlare di cambiamenti delle abitudini alimentari, con conseguenze anche importanti per la nostra salute. Come si prevengono i disturbi legati ai nuovi modi di alimentarsi?
“Se capisco bene la domanda non stiamo parlando di problemi legati all’alimentazione, definiti come “disturbi del comportamento alimentare” o DCA, quali ad esempio l’anoressia e la bulimia, che si riferiscono al disagio causato da un rapporto disturbato con il cibo e con il proprio corpo. Con la domanda, credo che vogliamo affrontare il problema della correlazione tra alimentazione e salute quando il nostro modo tradizionale di alimentarci lo integriamo con alimenti appartenenti ad altre tradizioni o addirittura lo sostituiamo, come accade quando ci si trova a dover vivere lontano dal proprio paese di origine e occorre adeguarsi alla cucina del paese che ci ospita. Dico subito che quest’ultimo tipo di cambiamento in passato è stato molto utile per stabilire le correlazioni tra alimentazione e malattie, specie quelle tumorali. Ad esempio, l’incidenza del cancro dello stomaco nei giapponesi è stata ed è ancora altissima mentre nella popolazione statunitense è molto più bassa. Ebbene, quando dopo la seconda guerra mondiale è iniziata la migrazione giapponese negli USA, attraverso studi epidemiologici si è scoperto che i giapponesi americanizzati si ammalavano molto di meno di cancro dello stomaco rispetto ai loro connazionali restati in Giappone. Nello studio della relazione causa-effetto poi si è scoperto che la causa del cancro dello stomaco nei giapponesi dipende in larga misura dal loro modo di alimentarsi per cui, quando popolazioni nipponiche si sono trasferite negli USA, dove hanno cambiato drasticamente il modo di alimentarsi, per esse si è registrato un calo importante dell’incidenza del cancro dello stomaco. Nel contempo, però, in queste popolazioni era cresciuto il rischio di contrarre altre malattie, come quelle cardiocircolatorie, che nei connazionali restati in Giappone era invece più basso. Poi sono state scoperti anche i componenti alimentari responsabili di queste differenze di rischio cancerogeno, tra cui i nitriti e nitrati utilizzati nella conservazione del pesce in Giappone. Questo esempio ci fa capire come possa essere rischioso per noi italiani, che adottiamo standard alimentari ispirati alla “dieta mediterranea”, riconosciuta come estremamente salutare, cambiare completamente stile alimentare per sostituirlo con un altro sul quale molto spesso non siamo documentati. Se, invece, vivendo nel “villaggio globale”, per essere alla moda introduciamo nella nostra dieta piatti di altre culture e tradizioni, i rischi alimentari non dovrebbero essere molto alti a patto che i “piatti esotici” siano sostitutivi e non integrativi dei “piatti tradizionali”. Questo, infatti è il pericolo: crearsi un nuovo modello alimentare sommando letteralmente due distinti modi di alimentarsi. In questa evenienza, infatti, ci troviamo a non controllare più la quantità giornaliera di calorie ingerite e lentamente entriamo nel tunnel patologico che da un leggero sovrappeso ci conduce all’obesità e alla sindrome dismetabolica. Ma questo pericolo resta anche se eccediamo mangiando all’italiana. Ad esempio, se invece di un piatto normale di spaghetti al pomodoro, riconosciuto come piatto di grande salubrità, prendiamo l’abitudine di mangiarne non la quantità adeguata alla nostra attività fisica ma una quantità largamente eccedente, nel tunnel sopra citato ci entriamo lo stesso perché anche gli spaghetti al pomodoro diventano “tossici”. Questo è un concetto che dovrebbe essere consolidato e che fu formulato nel ‘500 dal grande Paracelso, la cui dotta affermazione tradotta in italiano è: «Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto». Cioè Paracelso introdusse nella tossicologia il concetto di “dose” che vale per tutto, per gli spaghetti e anche per l’acqua, che si sarebbe portati a credere essere completamente atossica ma che, invece, ha un ben definito valore di “Dose Letale 50”, cioè di quantità che, somministrata in una volta sola, è in grado di uccidere il 50% (cioè la metà) di una popolazione campione di animali da esperimento. Naturalmente sull’uomo non si fanno esperimenti per calcolare il valore di “Dose Letale 50” e si utilizzano i dati misurati su altri mammiferi ma ci sono casi di avvelenamento e di morte da eccessiva ingestione di acqua”.
Il modo giusto di avvicinarsi al cibo. Qual è il modo giusto per avvicinarsi al cibo? Le disfunzioni legate all’alimentazione. I disturbi più frequenti sono senz’altro l’obesità e il suo opposto l’anoressia. Dove si inceppa il meccanismo che ne regola il giusto equilibrio?
“In molti c’è la convinzione che per avere un giusto rapporto con il cibo basti conteggiare solo le “calorie” provenienti dai macronutrienti (carboidrati, proteine e lipidi) o magari aggiungere nel computo anche specifici micronutrienti, quali definite vitamine e sali minerali. E allora si adottano diete poco varie perché oggi con il mercato globale possiamo comprare un determinato prodotto alimentare, quello che soddisfa in modo particolare il nostro gusto, per tutto l’anno. Così, ad esempio, ci riempiamo di fragole da Pasqua a Natale tanto le fragole fanno bene e mi danno le vitamine e i sali minerali di cui il mio organismo ha bisogno. In tal modo dimentichiamo la stagionalità che porta sul mercato prodotti diversi, che sono tutti necessari per stare in buona salute. Invece questo è un approccio al cibo sbagliato ed è dimostrato dalle ultime ricerche che dimostrano come i metaboliti secondari presenti nei vegetali abbiano un ruolo biologico importante, risultando dei veri e propri modulatori genici. Stiamo appena uscendo dall’era della genetica e della genomica, che ci aveva portato a credere che tutto il nostro destino fosse scritto nel DNA. Invece, ora che siamo entrati nell’era post-genomica, caratterizzata dalla sviluppo della proteomica e della metabolomica, ci siamo accorti che il DNA contiene solo una informazione statica che contribuisce alla vita forse per non più del 40%. Il resto cade in un nuovo campo del sapere che si chiama “epigenetica” che include tutto ciò che regola l’espressione genica pur non alterando la sequenza del DNA. Cioè oggi la scienza ha capito che non è il genotipo ereditato in sé che determina il fenotipo, cioè quello che noi siamo o diventiamo giorno per giorno nell’arco della nostra vita, ma che il fenotipo è determinato da tutto un insieme di processi regolati da modulatori dell’espressione genica tra i quali importantissimi sono quelli che arrivano alle nostre cellule attraverso l’alimentazione. In questa nuova visione olistica della vita, pur mancando ancora evidenze sperimentali in grado di disegnare un quadro complessivo, possiamo ritenere che tutto ciò che la Natura ci mette a disposizione nell’arco di un anno solare sia necessario ad accendere o spegnere in maniera ciclica i nostri geni, in armonia con ritmi circadiani di nuova concezione non più calibrati solo sul ritmo delle 24 ore. In questo quadro si capisce l’importanza di legare l’alimentazione alla stagionalità dei prodotti perché se ci alimentassimo solo con fragole come frutta terremmo accesi e spenti gli stessi geni tutto l’anno senza possibilità di alimentare il corretto ritmo circadiano responsabile del mantenimento del nostro stato di salute. Quindi, per rispondere alla domanda, il giusto approccio con il cibo è quello di osservare il principio di Paracelso della dose e di privilegiare una alimentazione legata al proprio territorio e alla sua stagionalità. Consumare di tanto in tanto, con grande parsimonia, “prodotti esotici” è accettabile. Sostituire in maniera consistente la base della nostra alimentazione tradizionale, quella che ha sostenuto i nostri genitori e i nostri avi, dandoci una determinata impronta epigenetica, potrebbe non essere esente da rischi. Ma sappiamo dall’antica saggezza che “ne uccide più la gola che la spada” per cui non mi aspetto che questa raccomandazione di precauzione sia seguita dalla maggioranza. Per rispondere al resto della domanda bisognerebbe addentrarsi nella interconnessione tra cibo e mente, laddove il primo può influenzare l’altra e viceversa, perché sappiamo che il mantenimento del benessere psicologico, come quello fisiologico, passa attraverso una sana alimentazione, come quella che ho cercato brevemente di delineare. Infatti, il complesso sistema nervoso, di cui siamo fatti, si muove sulla base di particolari processi biochimici del neurone, che per funzionare necessitano anche loro di definiti fito-composti apportabili attraverso la dieta che mediano la costituzione e la ristrutturazione di certe strutture cerebrali, così come il passaggio dei segnali elettrici tra neurone e neurone alla base del funzionamento neuropsicologico. Ma preferisco non addentrarmi nel campo dei disordini riconosciuti come disturbi psichici, come l’anoressia citata nella domanda, perché oltrepassa la mia specifica competenza”.
Spesso riportiamo anche sulle pagine di cronaca tragedie avvenute tra le mura domestiche per avvelenamento alimentare, legate alla conservazione, alla trasformazione o all’origine di cibi che poi consumiamo. In linea di massima, quali sono gli accorgimenti da adottare per scongiurare questi drammi?
“Una delle mie conferenze più richieste si intitola “Veleni in cucina” perché il lavoro in cucina, mentre da una parte può sfornare deliziosi manicaretti, dall’altra non è immune dal pericolo del rischio di un avvelenamento. A parte i pericoli corsi stupidamente da parte di chi consuma, ad esempio, funghi che ha raccolto personalmente ritenendoli eduli, il lavoro in cucina può creare molti pericoli sia se utilizzano prodotti di partenza non isonei sia se si utilizzano impropriamente degli utensili. In quest’ultimo caso rientra, ad esempio, l’impiego non conforme delle padelle antiaderenti mentre tra i primi rientra la frittura delle patatine che sembra una cosa banale ma che va fatta con molto criterio per ridurre a minimo la formazione di acrilammide. Ma i pericoli maggiori in cucina vengono dai frigoriferi che, nella stragrande maggioranza dei casi, non vengono mantenuti dalle nostre massaie adeguatamente. Ma per sviscerare tutti questi aspetti ci vorrebbe un’altra intervista”.
Il CNR, nella fattispecie il suo Istituto di Scienze dell’Alimentazione, in che modo opera per prevenire e far conoscere il suo importante lavoro scientifico, per quanto riguarda una corretta informazione sulla sicurezza alimentare?
“L’istituto CNR che ho diretto fino a qualche anno fa si occupa di ricerche che spaziano in vari campi delle scienze dell’alimentazione e i risultati del lavoro scientifico seguono le normali strade di diffusione: da una parte le pubblicazioni su riviste internazionali e le comunicazioni ai congressi e dall’altra l’organizzazione in sede di convegni, conferenze, seminari, visite guidate di scuole, ecc.. A livello centrale, poi, il CNR gestisce alcune sue riviste on-line sulle quali pubblica tutti i risultati che si ottengono nei vari istituti di ricerca e li utilizza come comunicati stampa che vengono ripresi dalla stampa nazionale ed estera per servizi sia in TV e radio sia sulla carta stampata.”Infine, come si sa noi italiani siamo anche un popolo di vacanzieri. Quali consigli vorrebbe darci quando siamo lontani dal nostro Paese, per non correre rischi quando ci sediamo a tavola?“La ringrazio per la domanda che è molto ben posta. Infatti il problema delle vacanze degli italiani non si pone quando esse sono godute sul territorio nazionale perché l’Italia è forse l’unico paese al mondo dove il controllo igienico-sanitario degli alimenti è svolto molto accuratamente su tutto il suo territorio. Diverso è il discorso delle vacanze all’estero dove i pericoli in agguato sono essenzialmente di natura microbiologica. Le precauzioni principali sono quelle dall’astenersi dal consumare prodotti alimentari crudi, specie in paesi caldi, o dal bere acqua non in bottiglia sigillata”.
Marcello Perpetuini