Il rappresentante sindacale si era presentato nell’ufficio della comandante per difendere la posizione di un vigile urbano che lamentava un iniquo trattamento di carico di lavoro. Secondo i supremi giudici, “e’ del tutto infondata la tesi difensiva secondo cui le frasi pronunciate in qualità di esponente sindacale e in difesa della posizione di un aderente al sindacato non hanno efficacia lesiva”.
“L’affermazione circa il mancato svolgimento di attività lavorativa – precisa la corte di Cassazione – da parte di addetti alla polizia municipale, si traduce inevitabilmente in una accusa, mossa alla dirigente, di incapacità organizzativa delle delicate funzioni dei singoli vigili urbani e di carenza di controllo sul dirigente ed efficace svolgimento di tali funzioni”.
“L’accusa – sottolinea i supremi giudici – di mentire e di violare la verità, nell’ambito di una pur accesa polemica, ugualmente costituisce una indubitabile lesione dell’onore e del decoro della donna, sotto il profilo etico e professionale: lo scontro, la polemica, il dissenso, maturati nel confronto di opposti schieramenti o di opposte individualità devono avvenire, come in tutti i casi riguardanti i comuni cittadini, nell’ambito del rispetto delle regole giuridiche e della civile convivenza. Non e’ quindi invocabile l’esimente dell’esercizio del diritto di critica sindacale”.