Chi desiderasse produrre olio di oliva in una zona del territorio teatino, che la legge dello Stato vorrebbe con stravaganza tutelare nella sua integrità, dovrebbe desistere dal suo proposito: “se c’è un frantoio in zona A” – ha dichiarato l’assessore all’agricoltura Febbo – “il frantoio deve andar via”. Di qui l’invito ad aderire alla proposta avanzata dalla Provincia di Chieti: far coincidere il futuro Parco con le aree del territorio già protette dalla legge regionale n. 5 del 2007 ovvero contenerne l’esistenza entro i confini delle seguenti sei riserve: Punta Aderci (Vasto); Lecceta (Torino di Sangro); Grotta delle Farfalle (Rocca San Giovanni e San Vito Chietino); Ripari di Giobbe (Ortona) e Marina di Vasto. Gli ambientalisti che hanno partecipato all’incontro hanno vivamente protestato, chiedendo ad alta voce che le informazioni elargite fossero più corrette: nelle riserve istituite dalla legge regionale – ha ricordato Fabrizia Arduini del WWF – non sarebbe comunque possibile costruire frantoi. Ma questo argomento non deve aver convinto il pubblico presente al dibattito. Vediamo, allora, cosa stabilisce la legge dello Stato. L’art. 12 della legge n. 394 del 1991 disciplina il “Piano del Parco”. Approvato dal Consiglio direttivo ed adottato dalla Regione, esso suddivide il territorio del Parco in base al diverso grado di protezione dell’ambiente: a) aree integrali; b) aree generali orientate; c) aree di protezione; d) aree di promozione economica e sociale. Eccezion fatta per le aree integrali, ove non sarebbe possibile esercitare alcun tipo di attività, in riferimento alle altre tre la legge non pare porre particolari impedimenti all’esercizio delle attività agricole. Soprattutto in quelle classificate come c) e d). Se così è, chi temesse per il futuro dell’agricoltura teatina non potrebbe, dunque, sostenere che il problema principale del Parco sia quello della sua estensione e che, in ragione di ciò, il suo territorio vada ridotto e fatto coincidere con le riserve già esistenti. Da questo punto di vista, il problema sarebbe semmai quello della classificazione del territorio. Un problema, tuttavia, superabile. E per questo, appunto, un falso problema. Ma su che cosa, invece, inciderebbe la minore o maggiore estensione del territorio del Parco? Essenzialmente su due attività: quella edilizia e quella petrolifera. Sull’edilizia per più ragioni: perché, ad esempio, nelle aree classificate come b) non sarebbe possibile “costruire nuove opere edilizie, ampliare costruzioni esistenti ed eseguire costruzioni”; perché, ancora, il piano del Parco avrebbe effetto di dichiarazione di pubblico interesse e sostituirebbe ad ogni livello i piani paesistici, quelli territoriali o urbanistici, così come ogni altro strumento di pianificazione. Quanto alle attività petrolifere, l’istituzione del Parco renderebbe immediatamente applicabile il decreto legislativo n. 128 del 2010, fortemente voluto dal ministro Prestigiacomo a seguito del disastro occorso nel Golfo del Messico; il quale, per un verso, impedirebbe di esercitare quelle attività entro il territorio del Parco (a prescindere dal tipo di classificazione adottata); e per altro verso, estenderebbe il divieto all’esercizio delle stesse fino a 12 miglia marine. Conseguenze, come si vede, senz’altro positive per l’agricoltura. Per carità: si può legittimamente pensare che cemento e petrolio siano il futuro della Costa teatina e che per questo vada salutata con favore la proposta elaborata dalla Provincia di Chieti. Si abbia, però, almeno la cortesia di spiegare agli agricoltori che l’istituzione del Parco non arrecherà alcun danno alla loro attività.
Enzo Di Salvatore
Docente di diritto costituzionale – Università degli Studi di Teramo