Qualche giorno fa il popolare social network ha oscurato la pagina delle “Sardine”. Ciò potrebbe essere avvenuto a causa delle numerose segnalazioni pervenute che ha automaticamente generato l’oscuramento della pagina. Il riferimento è a una prassi che sfrutta il funzionamento del sistema di moderazione di Facebook: quando tante persone segnalano una pagina, attirano su di essa l’occhio dell’algoritmo, con l’obiettivo di procurarne l’oscuramento.
I contenuti che pubblichiamo su Facebook, infatti, vengono monitorati costantemente. Ci sono algoritmi che intercettano in automatico post e foto potenzialmente problematici e poi li dirottano a un team di dipendenti (umani) sparpagliati in tutto il mondo che hanno il compito di decidere cosa è da bloccare e cosa no. Accanto al sistema automatico, ci sono poi le segnalazioni degli utenti: anche quelle, stando a quanto dichiarato da Facebook, vengono poi vagliate dai moderatori umani prima di tramutarsi eventualmente in sanzioni (come il blocco della pagina o la sua eliminazione).
A prescindere dai motivi che non sono mai stati del tutto chiariti, la decisione di Facebook di rendere inaccessibile la pagina del movimento delle “Sardine”, benché poi revocata, ripropone il tema della “democraticità della rete“.
Certo è che la vicenda, come già altre in passato, tocca un punto nevralgico: quella che asetticamente viene definita policy aziendale dei social su cui si fonda la rimozione di contenuti ritenuti “illeciti”, ha un impatto rilevantissimo sui diritti fondamentali e, come tale, costituisce esercizio di un vero e proprio potere, ancorché “privato”.
La centralità, progressivamente assunta dalla rete e dagli stessi social, nel “fare informazione”, finisce con il caricare le piattaforme di un ruolo (e di un potere) informativo cui, tuttavia, non corrispondono regole adeguate. È significativo, infatti, che, dopo la vicenda Cambridge Analytica – che ha rivelato il potere manipolativo proprio del “microtargeting” – la disciplina europea sanzioni l’uso illecito di dati personali per condizionare i risultati elettorali.
Significativo, ad esempio, che Twitter abbia valutato di non rimuovere i tweet politici che violino le sue regole, ma di limitare le interazioni con essi contenendone, quindi, anche la “viralità”. Si tratterebbe, certo, di una misura non risolutiva del problema dell’incidenza delle decisioni dei gestori sui diritti di libertà, ma indubbiamente più efficace dello strumento “censorio” adottato da facebook nel caso delle “Sardine”.
In questo senso, suggerisce il Garante della privacy, andrebbe percorsa la strada di soluzioni tecniche volte a segnalare all’utente, in base a criteri oggettivi (ad esempio la massività degli invii o il numero di condivisioni) contenuti potenzialmente inaffidabili, stimolando anche, così, il senso critico degli utenti.
Utilizzare la tecnica in funzione di promozione dei diritti, anziché di loro limitazione, può essere, in questo senso, una delle soluzioni migliori per contribuire a rendere la rete quello straordinario strumento democratico che deve essere.
Avv. Luca Iadecola
Esperto privacy, dpo