“ Giornalista? Sempre meglio che lavorare”. Il vecchio adagio, oggi, non va più di moda o forse potrebbe essere cambiato così: “qualsiasi lavoro tranne che il giornalista”, soprattutto per chi, con un pizzico di esterofilia, viene etichettato come free lance. Di esterofilo, questo settore, invece ha assorbito solo gli aspetti negativi.
Oggi, senza ombra di essere smentiti, in Italia vige il modello giornalistico cinese. Niente a che vedere con la censura, ma con i compensi. Anzi, i cinesi che lavorano in aziende fantasma, vengono pagati più di un articolista precario. Per anni il settore, in maniera sin troppo pudica, è stato in silenzio. Ora, però, come dimostrano alcune recenti prese di posizione, non si può rimanere zitti. Non esiste che articoli possano essere pagati 3, 4 o 5 euro. Non è solo un aspetto economico, ma è un fatto di dignità. Cinque euro per un articolo (quando va bene) per trovare una notizia, verificarla e poi confezionarla per i lettori. Sì, cinque euro: poco più dell’occorrente per una frugale colazione al bar. Senza dimenticare che le spese vive non te le rimborsa nessuno. Quante volte, nel nostro percorso professionale, ci siamo trovati a raccontare storie di sfruttamento, di lavoratori sottopagati, o che non vedono soldi da mesi. Ebbene, nel giornalismo italiano questa cosa è la prassi e tutto prosegue con la compiacenza di chi, al contrario, dovrebbe tutelare i più deboli. I precari, i collaboratori, che devono solo eseguire ordini e non fiatare (per chi comanda esistono solo per eseguire gli ordini, non certo per essere ascoltati quando avanzano timide e legittime rivendicazioni), sono tenuti ai margini di qualsiasi decisione e soprattutto non hanno nessun potere contrattuale. Non esiste nessuna differenza tra i braccianti agricoli, sfruttati dal caporalato, e i precari del giornalismo, stretti nella morsa tra direttori modello servi schiocchi e gli editori, che elargiscono compensi da fame. Quando finirà questo eterno sfruttamento? Quando arriverà una rivoluzione dal basso, utile per smontare l’arroganza degli schiavisti moderni? Chi ci prova, troppo spesso, viene additato come la pecora nera. Anche se il drappello dei malpancisti non più silenziosi, si allarga. Chi detiene il potere dell’informazione ripete la solita litania: “c’è la crisi economica, il fatturato cala, scendono le vendite e la raccolta pubblicitaria”. Poi i tagli riguardano solo l’anello debole della catena: coloro che vivono il territorio, stanno sempre sulla notizia e contribuiscono, in maniera determinante, ad animare le pagine di un giornale e s’improvvisano anche fotografi. Il bello è che gli schiavisti del terzo millennio vendono le loro notizie, percepiscono i contributi statali e si fanno pagare la pubblicità in maniera profumata. Per loro è normale maciullare nel tritacarne la passione, la professionalità e l’entusiasmo di chi cerca di onorare questo mestiere. Il tutto, poi, avviene con la compiacenza dei direttori, più impegnati a mettersi in mostra che ad altro, e ai capi redattore, che a parole dicono di capirti, poi quando si tratta di prendere una posizione, invece di rimanere neutri, preferiscono sempre schierarsi dalla parte del più forte. L’arroganza e la presunzione di taluni è direttamente proporzionale all’indice di sfruttamento. In ballo c’è la dignità delle persone, calpestata senza scrupoli, a prescindere dalle capacità e professionalità. I precari non hanno nulla in mano, solo una cartella piena di sogni, destinati però ad evaporare con il passare del tempo. Che fare allora? Lottare? Qui vale il motto: armiamoci e partite. Anche perché nel composito mondo dell’informazione è sempre nutrita la pletora dei crumiri di quarta generazione, che non attende altro che farti le scarpe. In questo settore l’apprendistato non finisce mai. Quello che è precario, per gli editori diventa la consuetudine e se poi alzi la voce, ti senti rispondere: “ ho altro da pensare, questi discorsi non li voglio sentire”. Poi hanno anche le pretese e ti rinfacciano che il giornale ti garantisce la visibilità. Ma quale visibilità! Non me ne faccio nulla: mica sono uno malato di protagonismo! La visibilità? Sentire questi ragionamenti è peggio che essere sottopagati. La verità è che in Italia il lavoro intellettuale non paga e non viene riconosciuto, né tanto meno l’attività giornalistica, a meno che non diventi lo zerbino del potente di turno. Le strade allora sono due: o mollare tutto, prima che la depressione si impadronisca di te (anche se il giornalismo, più che una passione, è una malattia), oppure imbracciare il fucile (figurativo) e iniziare la battaglia. Una battaglia che si può anche perdere, sia chiaro, ma condotta sempre a testa alta, sicuri che tutto si può calpestare, tranne che la dignità delle persone. L’unica arma è denunciare pubblicamente, magari non cambierà nulla, ma mai subire passivamente la protervia degli sfruttatori moderni, che non hanno né lo stile e né il carisma del capo. In una sola parola: iniziare a ribellarsi. I veri indignati (non violenti) siamo noi, mentre i potentati dell’editoria si riempiono la bocca di falso buonismo, ma i veri violenti sono loro: nei comportamenti, nel linguaggio e nelle prevaricazioni quotidiane.