Gestione dell’acqua in Abruzzo: cominciamo col dire che nella regione è rimasto sostanzialmente inapplicato il referendum del 12 e 13 giugno 2011 quando circa 27 milioni di italiani si recarono alle urne per una consultazione alla quale partecipò il 55% degli elettori con una schiacciante maggioranza (95%) a favore dell’acqua pubblica e contro l’energia nucleare.
In Abruzzo votò oltre il 57% degli aventi diritto, con una percentuale superiore alla media nazionale. Ciò nonostante a nove anni di distanza dal referendum il servizio idrico è rimasto nelle mani di società per azioni, fortemente condizionate dai partiti politici: un mix micidiale ben lontano dalla gestione comune e partecipata che era stata la richiesta degli italiani. Queste società, benché a capitale pubblico, mantengono un’impostazione privatistica con l’obiettivo di realizzare profitti lucrando su un bene comune come l’acqua a scapito della qualità del servizio, della risorsa naturale e delle tasche dei cittadini che vedono aumentare le bollette. Sulle tariffe si è consumato forse il più grande tradimento del referendum del 2011.
Uno dei quesiti referendari chiedeva infatti di abolire la cosiddetta “remunerazione del capitale investito”, un privilegio che rappresentava almeno il 7% (ma con punte ben più alte) della tariffa. Formalmente questa percentuale è stata eliminata dopo il referendum, ma è rimasta con altri nomi e gli italiani continuano a pagare per qualcosa che in realtà avrebbero abolito da quasi un decennio. Il tutto in cambio di un servizio decisamente scadente e che difetta in trasparenza.
Nel Teramano da mesi si combatte una battaglia all’interno dei comuni (e dei partiti) per il controllo della Ruzzo Reti SpA con balletti di cifre sulla reale situazione economica della società che gestisce l’erogazione dell’acqua in gran parte della provincia. Poi, a dispetto della nomina di un commissario, rimane tuttora irrisolta la questione della sicurezza delle falde, minacciata dalla prossimità con i laboratori del Gran Sasso e le gallerie autostradali. In più alle associazioni, che hanno costituito un Osservatorio permanente in difesa di un primario bene comune, non è stato finora consentito di accedere tempestivamente alle informazioni né tantomeno di partecipare alle scelte.
Identico discorso può essere fatto per il versante aquilano dove opera la Gran Sasso Acqua SpA. Nel Chietino la situazione è a dir poco paradossale: sino a qualche giorno fa esistevano due società pubbliche di diritto privato, una per la gestione della rete idrica, la SASI SpA, e l’altra, ISI srl, proprietaria delle reti, residuo di una indecente scelta politica che in tal modo (all’epoca in tutta la Regione) aveva moltiplicato consigli di amministrazione e poltrone. Ebbene altrove le società di patrimonio sono scomparse da anni mentre a Lanciano (sede di entrambe le aziende) lo scioglimento dell’ISI è stato formalizzato solo da poco, con un buon decennio di ritardo (l’iter iniziò nel 2011). Tutto questo mentre la provincia di Chieti (la SASI SpA la gestisce tutta meno il capoluogo e il suo immediato hinterland) vanta numeri da record in quanto a guasti nella rete di distribuzione, in condizioni precarie per vetustà e mancanza di manutenzione. La settimana scorsa Vasto e diversi altri comuni sono rimasti a lungo a secco proprio per questo e l’intervento si è limitato al solito a… metterci una pezza riparando il tratto rotto della condotta, in attesa che i tubi cedano altrove.
Non che con l’ACA SpA le cose vadano meglio: l’azienda acquedottistica che gestisce per intero la provincia di Pescara e alcuni comuni in quelle di Teramo e Chieti (capoluogo compreso) sta già effettuando razionamenti, con riduzione di portata e richieste insistenti agli utenti perché limitino i consumi, ma poi quando c’è una perdita lascia che l’acqua scorra via per due intere giornate, come abbiamo recentemente denunciato, prima di provvedere alla riparazione. Per non dire delle “pezze” messe sull’asfalto lasciando buche e avvallamenti, diretta conseguenza dello scorrimento dell’acqua sotto l’asfalto, nella totale indifferenza dei Comuni che si lamentano spesso dell’ACA SpA (qualche giorno fa ad esempio è intervenuto il sindaco di Chieti), ma poi non fanno nulla per costringerla a un servizio migliore.
Del resto la quantità delle perdite, secondo dati ufficiali del Governo, è semplicemente impressionante: degli 8,3 miliardi di metri cubi immessi nelle reti nazionali, ben 3,45 miliardi, pari al 41,4%, si disperdono prima di arrivare ai rubinetti. L’Abruzzo – insieme a Friuli, Umbria, Lazio, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Sardegna e Sicilia – è da questo punto di vista tra le regioni peggiori, con uno spreco che supera il 60%, in aumento rispetto al 2012. Servirebbe un investimento per rifare le condotte, invece si continua con la scelta, a lungo termine assai più costosa, di tamponare le falle e andare avanti così. Tanto il peso economico ricade per intero sulle spalle dei cittadini! Questo discorso vale a maggior ragione per la Puglia, che vorrebbe intubare e trasferire nelle proprie obsolete reti acqua prelevata dalle sorgenti del Pescara (per inciso: area tutelata dalla Comunità Europea per le sue importanti peculiarità naturalistiche): quella Regione spenderebbe certamente di meno e con migliori risultati riparando le proprie condotte invece di impoverire la portata del maggior fiume abruzzese con danni enormi, diretti e indiretti, anche per la qualità delle acque di balneazione. Facendo investimenti mirati a migliorare la rete, potrebbe forse avanzare qualche soldo anche per un corso di aggiornamento sull’ambiente fluviale, sul ciclo dell’acqua e sulle direttive europee da riservare a quei dirigenti dell’Acquedotto Pugliese che hanno candidamente affermato che l’acqua del Pescara viene “sprecata” perché va dalle sorgenti al mare…