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Roseto, lettera di un’insegnante: “I minori bevono e fanno uso di sostanze”

Riceviamo e pubblichiamo una lettera di denuncia che riguarda Roseto.

“È sabato pomeriggio, uno dei tanti di un febbraio che ha lasciato un Abruzzo ferito, dopo un mese trascorso a tremare per la minaccia di scosse continue e violentato dalla mala gestione delle emergenze, col ricordo ancora vivo di quei giorni di gennaio che hanno sbattuto la provincia di Teramo sui quotidiani nazionali, per la neve, il sisma, i morti.Sono un’insegnante precaria; la piccola cittadina dove lavoro, Roseto degli Abruzzi, non è diversa dalle altre città vicine. Con due amici passeggio per le piccole vie del centro e penso che quel pomeriggio di sabato non è diverso dai tanti altri fine settimana che scorrono in attesa della domenica: donne che si affrettano con buste della spesa, il traffico che si ingolfa lungo la statale, ragazzini in gruppi. 

Ed è su di loro che si concentra la nostra attenzione. Sono la classe duemila, bambini cresciuti tra i dodici e i sedici anni; io e i miei amici siamo lì per loro. Come insegnante certe voci non sfuggono, ma finchè non vedo con i miei occhi non posso credere sia vero.

Ed eccoli, ammassati in piccoli gruppi davanti ai mini market, fuori dai bar, fermi immobili, in attesa di tutto e niente, un tutto che imparo presto a capire, che è alla portata di chiunque voglia vederlo. Stanno con mazzi da cinque euro in mano, entrano nel negozio di turno e ne escono carichi di birra, vino; entrano nei bar e buttano giù quelli che chiamano “shoottini”, piccole porzioni di super alcolici da mandare giù di getto come acqua. Nessuno che chieda loro un documento di identità, nessuno che si interroghi su quella illegalità manifesta; solo gruppi di bambini cresciuti che sostano in attesa di finire la bottiglia che stringono come un trofeo per ricomprarne un’ altra.

Con i miei amici ci dirigiamo verso il piccolo mini market dietro la stazione ferroviaria: cinque ragazzini stanno fermi davanti all’ingresso con le loro birre; uno di loro ha al guinzaglio un cane; lo lega ad un carrello espositore del negozio cinese di fronte, poi lo chiama: l’animale con ogni sforzo, tira per andare da lui e porta con sé il carrello: tutti ridono. Sono le cinque di pomeriggio e sono già sbronzi. Donne di mezza età escono dal mini market con le loro buste cariche per il pranzo domenicale; tirano dritto a testa bassa, non vedono o non vogliono vedere, eppure potrebbero essere le madri di quei ragazzini. 

E le famiglie, dove sono? mi chiedo. La cassiera continua a battere alcolici, il cane ha paura in mezzo al fracasso e tiene la coda tra le gambe; uno dei ragazzetti gliela scansa col piede e ride. Penso che sono solo le 17.00 e all’alcool che fa presto a rendere un uomo peggiore di quanto sia, penso alla stupidità che potrebbe diventare meschina e ho paura per quel cane. Sono solo le 17.00.

Io e i miei amici ci spostiamo lungo una delle stradine di passeggio; le scene che ci sia presentano sono pressoché identiche; fuori da una birreria il numero di ragazzini aumenta vertiginosamente. Uno di loro è allievo di uno dei miei amici, con due chiacchiere e qualche pretesto gli chiediamo quanti anni abbia: 17, «al centro di ripetizioni non ti sei fatto vedere più!» butta lì il mio amico e collega; «no, la scuola la lascio, non ci vado più». È sabato pomeriggio, il mio amico mi guarda e sentiamo un blocco allo stomaco: abbiamo 30 anni, siamo la generazione dei precari eterni, la generazione perennemente senza esperienza, che invecchia senza che nessuno ci conceda di farne. Abbiamo 30 anni e per quei ragazzini avremmo dovuto essere l’esempio. E non lo siamo. Abbiamo lasciato che crescessero senza di noi, rigettando il proprio vuoto nella legge del più forte agonizzante dentro le loro bottiglie, fedeli ai dettami del dover essere, del contrasto forzato, della ribellione a quei genitori che hanno dato loro tutto per serrarne le bocche.

Andiamo via e ci spostiamo verso la pineta dietro la stazione ferroviaria. Mentre scendiamo le scalinate che conducono ai binari due bambini di non più di dodici anni si scambiano della roba: ci guardano mentre li osserviamo allibiti, si scostano di qualche metro senza troppa convinzione e continuano il loro scambio senza neppure la volontà di nascondersi.

La pineta è piena di ragazzi, molti dei quali palesemente sotto i 18 anni: stesso scenario, stessi alcolici ma qualcosa non torna. L’immobilità di gruppi senza birre in mano e l’aumento vertiginoso del numero di giovani mi porta a credere che siano lì per altro. Tra la folla scorgo qualcuno dei miei allievi, chiedo cosa aspettino tutti lì e, in pochissimo, veniamo a sapere che quel luogo è una piazza di spaccio, di erba e di altro. Con due domande veniamo a conoscenza persino del nome dello spacciatore locale. Un ragazzo poco più grandi dei suoi clienti. M.R. di anni 25 circa.

Sono informazioni a portata di tutti; poco distante da noi, una pattuglia di vigili urbani multa le auto parcheggiate male.

Torniamo indietro superando altri bar, altro alcool, altri visi cresciuti troppo in fretta. Siamo male. Penso che quella piccola passeggiata potrebbe farla chiunque, quelle informazioni potrebbero essere acquisite dalle forze dell’ordine in meno di un’ora. Basterebbe voler guardare, basterebbe non voler passare oltre. Sono ormai le 19.00; il tasso alcolico è salito, tra meno di un’ora quegli stessi ragazzini inizieranno a vomitare, a pisciare negli angoli della stazione senza neppure coprirsi: altre risate, altra gente che tira dritto, altre multe alle auto in sosta.

Penso a questa piccola città dove ho studiato, dove lavoro, alla provincia che soffoca attese e speranze, ai fallimenti di una generazione che non ha saputo essere figlia né madre, e mi dico che altrove, in altre città vicine, starà accadendo lo stesso. Provo rabbia per quello spettacolo a cielo aperto in cui tutto avviene sotto gli occhi di tutti. M.R., mi ripeto quel nome. Basterebbero pochi controlli. Quanti altri sabato dovranno esserci ancora?”.

Lettera firmata