L’iniziativa, organizzata dalla professoressa Carmelita Della Penna (docente di Storia Contemporanea alla Facoltà di Scienze Sociali dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara), è stata l’occasione per ribadire ancora una volta come l’Ateneo di Chieti sia attento a catalizzare l’attenzione dei giovani anche con giornate di studio particolari come questa. Quest’anno ricorrono i 50 anni di Love me do, primo singolo dei Fab 4 pubblicato il 5 ottobre del 1962. William Di Marco ha voluto celebrare l’importante ricorrenza con la pubblicazione del suo libro: storia, fenomenologia e discografia dei Beatles nelle pagine di un volume che ha fatto già molto parlare di sé.
Sono intervenuti all’incontro lo stesso autore, la professoressa Della Penna, il professor Bultrighini (docente di Storia Antica e di Etnomusicologia e Linguaggi musicali contemporanei presso l’Università di Chieti, nonché leader dei Tubi Lungimiranti, gruppo eroe del beat di provincia, autore di diversi libri sul beat e sull’influenza che hanno avuto i Fab 4 sulla musica) ed il professor Gianni Oliva (prestigioso italianista dell’Ateneo teatino, esperto studioso anche del rapporto musica popolare-poesia, nonché raffinato chitarrista). Tanti gli applausi per le esecuzioni musicali: il professor Bultrighini, il duo “Back in 2” ed il giovanissimo chitarrista Antonio Di Gabriele si sono esibiti in arrangiamenti acustici di alcuni classici dei Beatles, dando vita anche ad improvvisazioni che hanno regalato belle emozioni alla platea. È stato proiettato un breve video, “Liverpool e i Beatles”, girato a Liverpool, testimonianza dell’esperienza nella città portuale inglese degli studenti dell’Istituto Moretti di Roseto.
“Perché è importante una manifestazione di questo tipo? – ha detto il professor Umberto BUltrughini – I Beatles sono stati i vettori principali di un cambiamento straordinario che ha portato ad una nuova definizione dell’identità giovanile ed anche all’affermazione di un nuovo ruolo per la categoria del giovane nella società dal punto di vista del potere d’acquisto, economico e dei consumi. Tutto questo senza dimenticare il progresso artistico che questi quattro genialoidi musicisti hanno apportato nella cultura del ‘900: si può dire con certezza che tutto ciò che è nato nella musica popolare dagli anni’60 in poi si deve per almeno per il 90% alle intuizioni lungimiranti dei Beatles. Ho evidenziato la lenta infiltrazione dei Fab 4 nell’opinione della stampa italiana: è stato un processo lungo e faticoso. Ad esempio il direttore di un giornale popolarissimo all’epoca, Tuttamusica, insultava le lettrici che si lamentavano del mancato arrivo della band in Italia, passando poi, nel momento in cui il fenomeno era esploso a livello planetario, ad esaltarla all’improvviso. Io sono stato fra i fortunati spettatori di uno dei concerti dei Beatles il 27 giugno 1965 al Teatro Adriano a Roma: lì ho visto che la ‘Beatlesmania’ non era una costruzione propagandistica, ma un fatto reale che catturava specialmente le giovanissime. Loro avevano una capacità di trascinare inedita, non avevo mai visto una cosa del genere. Ho voluto far notare la continuità geniale dal punto di vista compositivo di Mc Cartney e soci eseguendo due brani, apparentemente distanti anni luce fra loro, Blackbird e Things we said today. Il primo risale al periodo della maturità dei quattro (era del 1968), mentre il secondo fa parte del primo LP interamente composto da loro (‘A Hard day’s night’). Credo così di aver dimostrato che la capacità compositiva di Mc Cartney sia la stessa in entrambi i casi: era qualcosa che si sarebbe sviluppata maggiormente nel tempo ma c’era già”.
“Ho voluto analizzare l’aspetto tecnico della musica dei Beatles – ha aggiunto il professor Gianni Oliva – molto del loro successo era dovuto soprattutto alla novità del suono e degli arrangiamenti. Ciò che più colpì all’epoca fu la presenza dei cori: eravamo abituati in precedenza a sentire una sola voce che cantava oppure magari una controvoce che andava per tutto il brano, con loro i cori venivano strutturati in maniera intermittente, entravano a singhiozzo nel pezzo. L’originalità stava nel fatto che le voci erano perfettamente identiche. Il ritmo poi non era quello che andava di moda: non era né rock’n’roll, né twist, nè shake, ma un misto di rhythm & blues e rock, un sound completamente originale, non ballabile. La tecnica di registrazione era quella primordiale: disponevano all’inizio, come la tecnologia permetteva, solo di due piste di registrazione ed operavano come se suonassero dal vivo. Incidevano la base su una pista, poi la riversavano su un’altra e facevano la voce. Ancora oggi, ascoltando le loro canzoni ed adottando il ‘balance’ dello stereo, si sentirà la voce da una parte e le chitarre e batteria dall’altra. L’altra particolarità fu la sovrapposizione della voce: Mc Cartney o Lennon cantavano un pezzo, poi lo ricantavano in modo tale da far combaciare le sillabe a tal punto che, siccome lo stesso John non riusciva a fare l’operazione perfetta come Paul, le sue voci venivano sfasate. Nacque così l’effetto Flanger, che è chitarristico, novità assoluta. Le chitarre erano percussive, non c’erano soli, si creavano piccole sfumature di note non messe certamente a caso. Con il tempo i Fab 4 si sono evoluti: dopo questa fase giovanile, nel 1966 arrivò l’album ‘Revolver’ fu una rivoluzione incredibile con strumenti diversi, arrangiamenti più complicati, presenza di archi. I quattro arrivarono poi alla soluzione dell’opera rock con ‘Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band’ fino all’apoteosi della melodia e della musica in ‘Abbey Road’. Mi piace anche sottolineare la bravura di Ringo Starr come batterista: lui è sempre stato troppo sottovalutato. Non dimentichiamo che quando i Beatles fecero il primo provino alla Parlophone, il batterista che c’era (Pete Best) fu escluso: una decisione del genere fu fondamentale. George Martin aveva capito che Ringo Starr era il batterista che ci voleva. Non è un virtuoso, però è un ‘computer’ nel ritmo: tutti i passaggi che ha fatto sono straordinari. Ascoltando l’inizio di Come Together è l’esempio di questo aspetto. Ringo usava delle pelli tirate al massimo in modo da ottenere un suono ovattato che si armonizzava con il resto. Nei dischi solisti di John Lennon, dopo lo scioglimento, a suonare la batteria fu sempre Ringo Starr. Oggi siamo abituati a vedere musicisti virtuosi che suonano di tutto: in realtà non è quello che conta, l’assolo fine a se stesso resta tale. Il vero musicista è colui che mette le note al punto giusto. Dalla chitarra di Mark Knopfler ad esempio vengono fuori sonorità subito identificabili, che hanno una loro identità precisa. Anche Harrison era un ottimo chitarrista: tutto ciò che c’è di armonia nella musica dei Beatles è fatto da lui”.