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“I vizi capitali e i nuovi vizi” di Umberto Galimberti

Benché la prima edizione de “I vizi capitali e i nuovi vizi” sia apparsa nel 2003, questo libro è ancora estremamente attuale e la sua lettura piena di spunti per una profonda riflessione sulle “patologie delle spirito” ma anche sui mali della società.

Innanzitutto, nell’introduzione, l’autore ripercorre brevemente la storia dei sette vizi capitali, a partire dalla filosofia classica fino ad arrivare ai giorni nostri. Secondo Aristotele si tratta di “abiti del male”, ossia cattive abitudini che diventano una “seconda natura” dell’uomo e che, come tali bisogna, correggere con l’educazione agli “abiti buoni”.

Ma è nel Medioevo che diventano veri e propri peccati in quanto deviazione dal bene e opposizione alla volontà divina.
La situazione cambia completamente nell’età dei Lumi, quando sono visti sotto tutt’altra luce, come fondamentali per lo sviluppo dell’industria, del commercio e quindi della società civile.

Difatti, la morale economica odierna è costruita in antitesi a quella cristiana. Se quest’ultima impone la mortificazione dei bisogni materiali e carnali, quella economica invece si basa proprio sul soddisfacimento di questi bisogni, e quindi dei vizi, in quanto l’amore per il lusso, per il superfluo, porta l’individuo a consumare e di conseguenza l’economia a funzionare.

Benché essi siano considerati il vero motore dell’economia, nell’ ‘800, con Kant, passano dalla sfera etica a quella patologica, diventando “deviazioni morali”, “malattie dello spirito”.

Galimberti fa, nella prima parte del libro, una disamina accurata dei sette vizi capitali. Dell’accidia ad esempio afferma che corrisponde alla moderna noia di vivere, la neuroastenia, quella che i romantici francesi chiamavano ennui, ossia sentimento della privazione, dell’assenza di sentimenti, deserto di passioni. Suona molto attuale la definizione di Pascal riportata nel testo: […]alterazione degli umori[…]tipica di chi, avendo abusato del piacere, si trova nell’impossibilità di desiderare.

Altra analisi degna di nota è quella dell’invidia, l’unico tra i sette vizi che non dà piacere in chi lo prova. Il filosofo Spinoza la definì come quella disposizione che induce l’uomo a godere del male altrui e a rattristarsi, al contrario, dell’altrui bene.
Secondo Galimberti, l’invidia è un meccanismo di difesa, un assurdo tentativo di salvaguardare la propria identità quando la si sente minacciata dal confronto inevitabile con gli altri, che fa sì che si sminuisca il valore altrui per proteggere il proprio. Ciò però non giustifica questo sentimento distruttivo, infatti l’autore spiega che bisognerebbe rinunciare a raggiungere mete troppo elevate quando le nostre forze o capacità non risultino adeguate. Rinuncia che non è codardia ma semplicemente accettazione serena dei propri limiti.

Nella seconda parte del libro vengono analizzati i nuovi vizi, quelli della società contemporanea, che sono nell’ordine: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania,  sociopatia, diniego e vuoto.

Di particolare interesse è la trattazione della spudoratezza, qui intesa non tanto in ambito sessuale, quanto come crollo delle barriere tra l’interiorità e l’esteriorità, con riferimento a quella mancanza di discrezione, di intimità, che caratterizza l’odierna società occidentale. Infatti la moda del nostro tempo impone la pubblicizzazione del privato,  in cui si ha la sensazione di esistere solo se ci si mette in mostra, applicando il concetto che vale per le merci anche alle persone. Secondo l’autore  ciò produce una metamorfosi dell’individuo che ormai si riconosce solo nella propria immagine, e perciò non cerca più se stesso, ma la pubblicità che costruisce la sua immagine. Per essere bisogna dunque apparire, è questa la triste realtà che emerge in conclusione. 

Complessivamente “I vizi capitali e i nuovi vizi” è uno specchio fedele della natura umana e della società  moderna, uno spunto e un invito all’analisi e alla riflessione, a guardarsi dentro per scorgere le proprie ombre ed affrontarle senza timori.