E’ quanto si legge, in sintesi, nelle motivazioni della sentenza con la quale la Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila, il 14 marzo scorso, ha confermato la condanna a 30 anni di reclusione a carico di Davide Troilo, l’ascensorista pescarese di 35 anni che il 2 dicembre 2016 uccise con 17 coltellate la sua ex fidanzata Jennifer Sterlecchini, 26 anni.
A fare ricorso contro la sentenza di primo grado, era stato il difensore di Troilo, l’avvocato Giancarlo De Marco, che puntava a far cadere l’aggravante dei futili motivi e ad ottenere la concessione delle attenuanti generiche. Nell’appello il difensore sosteneva che il gup aveva cambiato il fatto storico a fondamento dell’aggravante, ossia nell’imputazione si contestava a Troilo di aver ucciso Jennifer per non aver sopportato la fine della loro relazione sentimentale, mentre nella sentenza il movente era individuato nella mancata restituzione di un tablet.
Per i giudici aquilani la richiesta di esclusione dell’aggravante è invece infondata in quanto ritengono che: “Il giudizio non debba limitarsi ad apprezzare se nella contestazione siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, ma debba valutare se un’eventuale trasformazione, sostituzione o variazione di detti elementi abbia realmente inciso sul diritto di difesa dell’imputato, e cioè se egli si sia trovato o meno nella condizione concreta di potersi difendere”.
E aggiungono: “Ebbene al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che non può ravvisarsi una non consentita immutazione qualora il fatto ritenuto in sentenza, ancorché diverso da quello contestato, sia stato volontariamente prospettato dallo stesso imputato. In definitiva, nel caso di specie, posto che si é proceduto allo stato degli atti, con conseguente utilizzabilità ai fini della decisione di tutte le dichiarazioni rese dall’imputato ai fini della ricostruzione del fatto e delle sue circostanze, non può non rilevarsi che la riferibilità della condotta omicidiaria alla mancata restituzione del tablet è desumibile dalle dichiarazioni dello stesso imputato, sul punto reiterate e sostanzialmente concordanti”.
La difesa aveva anche chiesto una nuova perizia psichiatrica su Troilo, sostenendo che le conclusioni del perito del gip, il professor Massimo Di Giannantonio, docente di Psichiatria alla facoltà di Medicina dell’Università D’Annunzio, erano basate su valutazioni ed opinioni personali e non suffragate da riscontri di tipo scientifico. La Corte d’Appello ritiene invece che una nuova perizia “non si appalesi affatto necessaria ai fini del decidere, dovendosi ribadire il giudizio formulato dal primo giudice sulla piena capacita’ di intendere e volere dell’imputato fondato sulle condivisibili conclusioni” formulate dal prof. Di Giannantonio. E aggiunge: “Il perito ha ineccepibilmente sviluppato l’iter diagnostico mediante le due operazioni successive, connesse e interdipendenti, costituite dalla percezione dei dati storici, mediante colloqui clinici e somministrazione all’imputato di test proiettivi, e dal successivo giudizio diagnostico, giungendo in maniera ineccepibile al risultato finale, secondo cui l’imputato al momento del fatto “non era affetto da patologie psichiatriche o comunque da elementi clinici di sufficiente valore psicopatologico”.