Lo studio è stato diretto da Enrico Pugliese, docente della Sapienza di Roma) che ha coordinato un gruppo di ricerca composto da Stefano Boffo, Francesco Pirone e Enrico Rebeggiani dell’Università di Napoli “Federico II”.
L’indagine ha riguardato soprattutto le condizioni di vita delle famiglie de L’Aquila colpite dal terremoto del 6 aprile del 2009 che attualmente vivono negli alloggi del progetto Case e in quelli dei nuclei Map.
Il metodo seguito è stato quello dell’inchiesta e si è focalizzato sui problemi legati al processo di sradicamento dai luoghi storici di domicilio a seguito del terremoto e delle modalità di insediamento nei nuovi contesti di ricollocazione.
Il lavoro ha documentato le condizioni di vita quotidiana e le situazioni di disagio incontrate dalla popolazione anziana, più esposta a rischi di disagio psicologico e a quello di marginalizzazione sociale. In generale è emerso che la situazione risulta essere grave e difficile per quasi tutti gli anziani, anche se con differenze sensibili tra un insediamento e l’altro.
Uno dei problemi principali degli insediamenti Case riguarda l’assenza di servizi di prossimità.
La ricollocazione ha comportato anche un aggravio di costi economici che pesano di più sulla componente a più basso reddito della popolazione sfollata, non soltanto anziana.
Nell’inchiesta non ci si è limitati solo ai due gruppi alloggiati in sistemazioni provvisorie o di medio lungo periodo, ma è stata ricostruita anche l’entità della popolazione che è ancora collocata in sistemazioni di emergenza, cioè che percepisce “contributo di autonoma sistemazione” oppure beneficia di altre misure, quali gli affitti concordati e le strutture alberghiere e di permanenza temporanea, meno rilevanti in termini numerici.
Il rapporto evidenzia che le persone intervistate mostrano rimpianto per quello che hanno perso non solo in termini di socialità, ma anche in termini di funzionamento della vita quotidiana. Fare la spesa e incontrare amici erano spesso la stessa cosa. L’impossibilità di raggiungere un negozio riduce anche questa possibilità, almeno fino a quando non si creano alternative nuove di socializzazione. Anche recarsi a un ambulatorio, andare a chiedere un certificato, uscire per ritirare la pensione, sono occasioni d’incontro.
Ora mancano le une e le altre: le occasioni di incontro e le possibilità di accesso ai servizi. Tra i bisogni espressi più comunemente, c’è quello di spazi comuni per socializzazione.
Più in generale le aree possibili di intervento che sono suggerite dal lavoro di inchiesta vanno da un adeguamento del sistema dei trasporti pubblici a interventi mirati per l’accompagnamento soprattutto dei grandi anziani e per facilitare l’accesso ai servizi socio-sanitari. C’è poi l’esigenza di essere messi nella condizione di potere acquistare beni per il consumo quotidiano (insomma di poter “fare la spesa”).
Non si tratta di produrre soluzioni in astratto e, forse, è necessaria una fase di sperimentazione, discussa con gli interessati. Al riguardo, si può trarre profitto da qualche esperienza di volontariato, il cui ruolo deve però sempre essere contenuto entro limiti di sussidiarietà non sostitutiva, tenendo presente come ad esso spetti il compito di agire in modo complementare e integrativo con iniziative eventualmente capaci di potere essere replicate e generalizzate dalla istituzioni preposte. Una rete di servizi sociali di base resta, dunque, la condizione essenziale perché anche l’intervento volontario funzioni.
Infine la ricerca conferma l’estrema urgenza di disporre di fondi per sostenere le spese di ricostruzione del welfare. Qui non si tratta solo di un problema di risorse, ma anche d’innovazione dei modelli e della filosofia di intervento. In particolare, emerge che allargare la partecipazione è una scelta essenziale, come altrettanto essenziale risulta l’individuazione di elementi attivatori di un processo che sia di aiuto agli anziani ma, allo stesso tempo, capace di sviluppare anche l’intera comunità.