Il Tribunale di Chieti condanna il Ministero per discriminazione di genere

La docente ha ottenuto 12 mensilità perché pensionata un anno in anticipo rispetto ai colleghi. Avv. Braghini: La discriminazione di genere si nasconde spesso nelle pieghe della legge

Avezzano. La sentenza del Giudice del lavoro di Chieti, dr.ssa Laura Ciarcia, ha pubblicato la clamorosa sentenza qualche giorno prima di Natale, regalando bel oltre l’equivalente di una 13esima alla prof.ssa Maria di Ortona, che riceveva la notizia del risarcimento di 12 mensilità dall’avv. Salvatore Braghini, della CISL Scuola.

Il legale aveva presentato il ricorso nel 2014 contestando l’ingiustizia subita dalla lavoratrice, che, diversamente dai colleghi di sesso maschile, era collocata in pensione all’età di 65 anni e non di 66 anni, come previsto dalla famigerata legge Mont-Fornero. La riforma delle pensioni aveva, infatti, innalzato l’età per la pensione a 66 anni (con successivi aggiornamenti dettati dall’incremento dell’aspettativa di vita), ma non teneva conto del fatto che solo le donne con 61 anni compiuti entro il 31 dicembre 2011 venivano collocate in quiescenza al compimento dei 65 anni. Una discriminazione “al rovescio”, che si insinuava nelle maglie della legge, approvata frettolosamente per le pressioni dell’UE, preoccupata della tenuta dei conti dell’Italia. Il requisito dei 61 anni, infatti, non si applicava ai dipendenti di sesso maschile, collocati in pensione a 65 anni soltanto se avevano conseguito quota 96 (60 anni di età con 36 di contributi) ovvero 40 anni di anzianità contributiva. La docente era stata già penalizzata in quanto, avendo una contribuzione di appena 23 anni e 10 mesi, aveva chiesto e ottenuto la proroga biennale, ma, nel giugno 2014, il Governo Renzi l’aveva revocata per tutto il pubblico impiego con il Dl 90/2014. Aspirando ad ampliare la base contributiva, la docente aveva chiesto al Tribunale di Chieti l’accertamento del diritto ad essere pensionata perlomeno alla stessa età dei colleghi di sesso maschile, ossia nell’anno scolastico in cui compiva 66 anni e 3 mesi, ma il Giudice del lavoro (dr.ssa Ilaria Prozzo), che aveva esaminato il ricorso d’urgenza, lo aveva bocciato, non configurando alcuna discriminazione.
La sentenza pubblicata in questi giorni, finalmente rende giustizia alla donna, dichiarando “il diritto della ricorrente al computo, a fini retributivi e a fini pensionistici, del periodo dal 01.09.2014 al 31.08.2015” nonché stabilendo che il Ministero deve essere condannato “al risarcimento del danno economico patito dalla ricorrente per il diniego del suo trattenimento in servizio fino alla data del 31.8.2015, pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, tenuto conto dell’eventuale miglior trattamento retributivo che sarebbe conseguito con decorrenza 01.05.2015 per effetto del conseguimento, non contestato, della classe stipendiale 21-27, oltre che al pagamento della maggior somma tra interessi e rivalutazione monetaria dal giorno del dovuto fino al saldo”.

Esprime piena soddisfazione l’avvocato Salvatore Braghini che insieme al collega Renzo Lancia, ha seguito la vertenza anti-discriminazione in molti tribunali d’Italia, affermando che “non di rado la discriminazione tra uomini e donne si nasconde persino dietro le disposizioni di legge, in modo ancor più subdolo quando riguarda l’età della cessazione del rapporto di lavoro. Se può essere un obiettivo per molti lavoratori anticipare l’uscita, infatti, non lo è di certo per chi, con una bassa base contributiva, non la sceglie affatto, e soprattutto per chi, come in questo caso, lo subisce a causa di una diversa appartenenza di genere”. E annuncia battaglia per un’altra discriminazione, tuttora vigente, con riferimento, spiega “alla diversa anzianità contributiva richiesta alle donne, 41 anni e 10, invece di 42 anni e 10 mesi; una discriminazione quest’ultima sia per gli uomini, ai quali è richiesto un anno in più, sia per le donne, qualora aspirino a permanere fino alla stessa anzianità dei colleghi maschi”.

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