La Corte d’assise di Chieti, presidente Geremia Spiniello, a latere Isabella Maria Allieri, ha condannato a 13 anni di reclusione Emanuele D’Onofrio, 24 anni, operaio di Chieti per la morte di Simone Daita: a D’Onofrio, che è accusato di omicidio preterintenzionale, la Corte ha riconosciuto l’attenuante della provocazione.
Il giovane è stato inoltre e condannato a risarcire in separato giudizio le parti civili ed è stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici.
Il pubblico ministero Giuseppe Falasca aveva chiesto la condanna a 8 anni e 6 mesi: il difensore di fiducia di D’Onofrio, l’avvocato Roberto Di Loreto, ha annunciato ricorso in appello. D’Onofrio, che anche oggi ha seguito l’intera udienza, aveva rilasciato una breve dichiarazione spontanea: ”Non mi ritengo colpevole – ha detto – non volevo fargli male, non lo avrei neanche voluto colpire, la mia è stata una reazione istintiva e spontanea nel momento in cui mi sono sentito in pericolo”.
Sia durante le indagini che dal processo è emerso che D’Onofrio avrebbe reagito ad una iniziale aggressione da parte di Daita che lo aveva compito con un pugno al mento. Ma per l’accusa i colpi sferrato da D’Onofrio furono almeno due: il fatto si verificò la sera del 28 febbraio del 2015 davanti ad un bar di Chieti nella centralissima piazza Vico.
Da quel giorno Daita, 53 anni, che quella sera ubriaco e che secondo la difesa era affetto da disturbo compulsivo ossessivo, è entrato in uno stato di coma dal quale non si è mai più ripreso e un anno dopo è morto.
Nella sua requisitoria il pm Falasca ha parlato di un pugno fortissimo sferrato da D’Onofrio, micidiale: ”Non ha percosso per difendersi – ha detto Falasca – ma per dare una lezione, è un’aggressione ammantata da un pretesto”.