L’Aquila. Sin dai primi mesi del 2020, la pandemia da COVID-19 sta interferendo pesantemente con la quotidianità della popolazione mondiale. L’emergenza sanitaria ha travolto radicalmente il mercato del lavoro, con milioni di Italiani ritrovatisi soggetti a misure straordinarie al fine di garantire continuità della propria attività lavorativa.
La maniera privilegiata per fronteggiare l’attuale crisi è stata una rapida transizione su larga scala allo smart working. Lavorare da casa garantisce maggiore flessibilità degli orari lavorativi, permettendo una migliore organizzazione delle attività quotidiane, ed in particolare del sonno.
I benefici dello smart working potrebbero però non coinvolgere tutti i lavoratori allo stesso modo, interessando preferenzialmente i cosiddetti “gufi”, ovvero le persone con cronotipo serotino.
È proprio quanto è emerso da una ricerca appena pubblicata sulla rivista Scientific Reports (giornale internazionale peer-reviewed del gruppo Nature) condotta dal Laboratorio di Psicofisiologia del Sonno e Neuroscienze Cognitive dell’Università degli Studi dell’Aquila (link dell’articolo https://doi.org/10.1038/s41598-022-16256-6).
“Le persone con cronotipo serotino rappresentano all’incirca il 10-20% della popolazione generale. In una società tipicamente orientata alla mattutinità, questo gruppo è storicamente caratterizzato da una ridotta durata di sonno nei giorni lavorativi e problemi di insonnia e salute mentale a causa del disallineamento tra il proprio orologio circadiano e i ritmi socio-lavorativi” spiega il Professor Michele Ferrara, responsabile del progetto di ricerca e direttore del Laboratorio.
Nello studio, i ricercatori hanno dimostrato in un campione di quasi 900 lavoratori italiani, come la caratteristica tendenza dei “gufi” a dormire meno ed esperire sintomi di insonnia sia riscontrabile solo nel gruppo di lavoratori in presenza (il 70% dei partecipanti). D’altro canto, la vulnerabilità ai problemi di sonno delle persone serotine spariva nel gruppo di lavoratori da casa, che mostravano un posticipo generale dei periodi di addormentamento e risveglio, con risvolti favorevoli sulla sintomatologia depressiva.
La ricerca è stata condotta nel mese di dicembre 2020, durante la seconda ondata di contagi da COVID-19. “La transizione su larga scala verso lo smart working ha rappresentato un enorme laboratorio a cielo aperto per studiare le conseguenze di una modalità di lavoro più flessibile sul benessere del sonno della nostra popolazione” spiega il Dottor Federico Salfi, dottorando di ricerca in Medicina Sperimentale presso lo stesso Laboratorio e primo autore dell’articolo.
Lo studio si unisce ad una crescente letteratura scientifica che suggerisce come orari di lavoro che assecondino e rispettino il cronotipo individuale possano garantire a tutti i lavoratori eguali opportunità di sonno, promuovendone il benessere generale.
“La graduale mitigazione dell’emergenza sanitaria sta portando le persone a riprendere la loro routine lavorativa pre-pandemica. I risultati della nostra ricerca dovrebbero essere tenuti in considerazione nella progettazione di politiche lavorative di smart working sia nell’immediato, ma, forse ancor più importante, anche nell’era post-covid”, aggiungono gli autori dello studio.