Pescara. Quattro giovani pakistani, avvicinati da un caporale, peraltro clandestino, lavorano per circa un anno per un’azienda del Pescarese attiva nel settore della lavorazione delle carni e quando, sfruttati, malpagati o pagati in ritardo, provano a far valere le proprie ragioni, perdono il posto e uno viene perfino picchiato. A raccontare la loro storia è il segretario provinciale della Flai-Cgil di Pescara, Luca Ondifero.
I fatti sono avvenuti tra il 2015 e i primi mesi del 2016. La vicenda si è conclusa con una querela del lavoratore aggredito, una denuncia al Nucleo ispettorato del lavoro dei Carabinieri, una vertenza sindacale per recuperare dall’azienda le competenze perdute e un ricorso nei confronti dell’Inps, perché, come ha spiegato Ondifero, “al danno si aggiunge la beffa: i lavoratori sono stati costretti a dimettersi ‘per giusta causa’ ed è stata fatta domanda di disoccupazione, che però è stata negata”.
Il punto della situazione è stato fatto nel corso di una conferenza stampa, in piazza Sacro Cuore, a Pescara. Presenti, tra gli altri, oltre a Ondifero, il segretario della Cgil provinciale, Emilia Di Nicola, e due dei protagonisti della vicenda, che hanno raccontato la loro storia in forma anonima.
“Si pensa che il caporalato sia un fenomeno avulso dalla realtà, distante da noi – ha osservato Ondifero – Invece nella nostra provincia si è verificata la vicenda che ha visto protagonisti questi quattro ragazzi. Loro sono quelli da noi intercettati, ma ce ne sono altre centinaia. Denunciamo il fatto che nel 2016 in questo Paese, mentre si dice che tutto va bene, ci sono fenomeni che negano il diritto alla cittadinanza, al lavoro e ad avere un riconoscimento economico, elementi basilari affinché in un Paese sia effettivamente esercitata la democrazia”.
“Questi ragazzi – ha spiegato – sono stati reclutati da un caporale e utilizzati con contratti part-time di 20-25 ore settimanali, lavorando di fatto 10-12 ore al giorno, anche sette giorni su sette, per stipendi tra i 450 e i 550 euro al mese, ovviamente senza che venissero riconosciuti i diritti minimi. La loro storia è emblematica, perché nel momento in cui hanno avuto coraggio di chiedere il riconoscimento di elementi basilari quali lo stipendio o qualche diritto minimo, gli è stato detto di andare via perché c’erano tanti altri disposti a lavorare. Uno di loro, tornato in azienda, è stato anche picchiato, episodio per cui sono intervenuti i Carabinieri”.
“Abbiamo fatto tutto il possibile – ha sottolineato Ondifero – e le indagini sono in corso. Confidiamo che nelle prossime settimane ci siano degli sviluppi”.
“Ho lavorato in quell’azienda per un anno – ha raccontato uno dei pakistani – e lo stipendio del primo mese, 500 euro, è andato al ‘caporale’. Poi gli altri non arrivavano o arrivavano in ritardo. Il mio contratto era da cinque ore al giorno per cinque giorni, ma lavoravo almeno 10 ore, per sei o sette giorni a settimana”.
Di Nicola ha ribadito “l’impegno della Cgil per garantire la legalità nei luoghi di lavoro” e ha ricordato che “l’articolo 28 della Carta dei diritti universali del lavoro, che stiamo promuovendo, è finalizzato proprio al contrasto del lavoro nero, dello sfruttamento dei lavoratori immigrati e al ripristino di regole certe”.