Sebbene la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità abbia recentemente ufficializzato la fine dell’emergenza sanitaria da COVID-19, l’allarmante prevalenza di sintomi di long COVID potrebbe produrre una seconda crisi sanitaria, andando a interessare circa 4 sopravvissuti al COVID-19 su 10.
L’eziologia del long COVID rimane ancora poco compresa e pochi sono i fattori di rischio attualmente riconosciuti.
Il sonno gioca un ruolo cruciale nella regolazione del sistema immunitario e nelle risposte infiammatorie dell’organismo, e recenti studi hanno individuato proprio nell’infiammazione cronica e nella disregolazione immunitaria alcuni dei meccanismi fisiopatologici alla base dei sintomi di long COVID.
In quest’ottica, i disturbi del sonno potrebbero svolgere un ruolo significativo nella predisposizione ai sintomi che seguono nel lungo termine l’infezione da SARS-CoV-2.
A gettare luce sull’inesplorata relazione tra sonno pre-infezione e long COVID è un nuovo studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientificaBrain, Behavior, and Immunity (Impact Factor = 19.227), giornale ufficiale della PsychoNeuroImmunology Research Society, condotto dai ricercatori del Laboratorio di Psicofisiologia del Sonno e Neuroscienze Cognitive dell’Università degli Studi dell’Aquila (link dell’articolo: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0889159123001460?via%3Dihub).
“L’identificazione di potenziali fattori di rischio di long COVID rappresenta una sfida medica di primo ordine, al fine di garantire l’individuazione di popolazioni vulnerabili e la definizione di interventi preventivi mirati» spiega il Prof. Michele Ferrara, responsabile del progetto di ricerca e direttore del Laboratorio.
Lo studio prospettico ha coinvolto un campione di oltre 700 persone con infezione da SARS-CoV-2 che sono state valutate in due occasioni: prima dell’infezione (aprile 2020) e dopo aver contratto il virus (aprile 2022).
Nella valutazione iniziale, sono stati misurati la qualità/durata del sonno e i sintomi di insonnia utilizzando il Pittsburgh Sleep Quality Index e l’Insomnia Severity Index, strumenti internazionalmente riconosciuti per la valutazione dei disturbi del sonno.
Nella valutazione di follow-up, i ricercatori hanno valutato la presenza di un’ampia gamma di sintomi tipici di long COVID (psichiatrici, neurologici, cognitivi, fisici e respiratori) che sono stati esperiti a distanza di uno e tre mesi dalla fase acuta della malattia, così come gli effettivi tempi di recupero per ritornare al pieno livello di funzionalità pre-contagio.
La ricerca ha dimostrato come una scarsa qualità del sonno, i sintomi di insonnia, e una ridotta durata del sonno prima dell’infezione da SARS-CoV-2 siano associati alla manifestazione di un maggiore numero di sintomi a lungo termine post-COVID-19. Inoltre, i disturbi del sonno rappresentano un fattore di rischio significativo per lo sviluppo di pressoché tutti i sintomi di long COVID esaminati, oltre che determinare maggiori tempi di recupero funzionale.
“Disturbi del sonno come l’insonnia rappresentano una delle manifestazioni cliniche di long COVID più comuni. Con il nostro studio abbiamo voluto ribaltare il paradigma e proporre un nuovo punto di vista, dimostrando come i problemi di sonno costituiscano anche un importante antecedente della sindrome long COVID” spiega Federico Salfi, assegnista di ricerca, ideatore e primo autore dell’articolo.
Ad oggi, milioni di sopravvissuti al COVID-19 si trovano a convivere con un ampio spettro di manifestazioni cliniche che interferiscono con la loro vita quotidiana e compromettono persino la loro capacità di riprendere una routine lavorativa regolare, sovraccaricando i sistemi sanitari internazionali con ingenti costi sociali ed economici.
“Il prossimo step è sicuramente quello di valutare se interventi preventivi mirati al miglioramento della qualità e durata del sonno possano ridurre le sequele del COVID-19. Le implicazioni potrebbero essere di vasta portata, alla luce della preesistente epidemia di disturbi del sonno che affligge la nostra società, situazione ulteriormente peggiorata proprio durante il periodo pandemico» aggiungono i due autori del lavoro.