Chieti. Il Wwf torna a occuparsi dell’incendio di rifiuti che si è sviluppato nella zona di Colle Marcone, tra Chieti e Bucchianico, nella notte tra sabato 27 e domenica 28.
“La prima cosa da sottolineare – dice Nicoletta Di Francesco, presidente del WWF Chieti-Pescara – è che la tipologia di materiale accumulato nell’impianto andato a fuoco è almeno in parte nota grazie alle indagini a suo tempo compiute sia dalla Forestale che dalla Guardia di Finanza, indagini che hanno determinato un procedimento a carico del legale rappresentante dell’azienda, attualmente in attesa di definizione in Cassazione. Nella sentenza di primo grado viene citato lo stoccaggio non autorizzato di rifiuti pericolosi “quali batterie esauste al piombo, accumulatori, batterie al nichel-cadmio, fanghi, olii esausti di origine minerale e scarti di olio, farmaci scaduti, solventi e miscele di solventi, diluenti per solventi, diluenti per vernici, resine a scambio ionico”. Vengono inoltre citati materiali classificati come non pericolosi “quali imballaggi di plastica, imballaggi metallici, filtri di condizionatori esauriti”. Si sottolinea che l’accumulo era tale da non consentire una ispezione totale “in condizioni di sicurezza”, ma abbiamo comunque un’idea almeno approssimativa di quello che ha preso fuoco e sappiamo che cosa si sarebbe dovuto cercare immediatamente nel fumo e cosa si dovrà cercare oggi e nelle prossime settimane nel e sul terreno e sui vegetali, là dove è più probabile, in base all’analisi dei venti, che si siano depositati gli inquinanti”.
Il Wwf Chieti-Pescara ha chiesto anche il parere di un esperto. Va innanzitutto premesso che dal 1990 esiste a livello internazionale una benemerita associazione di medici per l’ambiente: l’Isde (International Society of Doctors for the Environmed), attiva anche nel nostro Paese. Abbiamo interpellato il coordinatore del comitato scientifico di ISDE Italia, dottor Agostino Di Ciaula, già ospite del WWF nel 2012 in occasione dell’incontro pubblico “A Chieti tira una brutta aria?”. «Tutti gli inquinanti sino ad ora testati – osserva Di Ciaula – sono soltanto inquinanti atmosferici. La loro pericolosità è indipendente dai limiti di legge, in quanto non esiste per nessuno di loro un limite al di sotto del quale siano considerabili “innocui” per la salute umana. Dunque, la loro pericolosità, sempre presente, è direttamente proporzionale alle concentrazioni raggiunte. D’altra parte, però, la loro persistenza nell’aria ambiente è limitata nel tempo. La concentrazione raggiunge il picco massimo durante l’incendio ma progressivamente (e rapidamente) cala in maniera tempo-dipendente. I danni maggiori legati a quelle concentrazioni, dunque, sono già stati fatti. Il discorso invece cambia per gli inquinanti (diossine, Pcb – Poli Cloro Bifenili, metalli pesanti, ma anche alcuni IPA- Idrocarburi Policiclici Aromatici) che, pur avendo raggiunto il picco atmosferico (nell’aria ambiente) massimo durante l’incendio, successivamente possono aver contaminato suoli e acqua in modo persistente, in quanto bioaccumulabili e non biodegradabili. È per questo che i successivi controlli si dovranno indirizzare in maniera particolare sulle concentrazioni di queste sostanze nelle matrici ambientali e in campioni biologici: sarebbe opportuno dosarle, ripetendo poi i controlli a distanza di uno e due mesi, nei suoli, nei prodotti agricoli e, soprattutto, nelle uova».
La storia. Il sito andato a fuoco in Contrada Sant’Antonio di Chieti, gestito della Serveco S.r.l., era autorizzato allo stoccaggio provvisorio di rifiuti speciali ma è stato negli anni utilizzato anche per altre tipologie di rifiuti. Tant’è che è in corso un procedimento giudiziario, attualmente in Cassazione in attesa della sentenza definitiva.
Tutto ha avuto inizio il 10 febbraio 2009, quando la Sezione Aerea della Guardia di Finanza di Pescara ha disposto il sequestro dell’area nella quale, come testimoniato da foto scattate dall’elicottero e da successivi sopralluoghi sul posto, erano stati – citiamo dalla sentenza di primo grado – “accumulati, in maniera incontrollata, rilevanti quantitativi di rifiuti, pericolosi e non, miscelati tra loro ed abbandonati direttamente sul terreno vegetale e sul piazzale (area pavimentata non destinata allo stoccaggio come indicato nella planimetria dell’impianto allegata all’autorizzazione regionale) per una superficie di oltre 2000 metri quadrati ed un’altezza media di circa tre metri”.
La cosa strana, quella che il giudice estensore della sentenza, Patrizia Medica, definisce “incredibile paradosso” è il fatto che già quasi un anno prima rispetto al sequestro della Guardia di Finanza, “ le condizioni drammatiche dell’area” erano state “accuratamente monitorate” pure dalla Forestale, più esattamente dal Nucleo Investigativo di Polizia Ambientale e Forestale (Nipaf) di Chieti che il 14 marzo 2008 aveva rimesso un rapporto, anche in questo caso con un ricco corredo fotografico, alla Procura della Repubblica di Chieti. “L’evidenza e la gravità delle violazioni – scrive il giudice – non aveva però condotto all’adozione di alcun provvedimento cautelare, tanto che risultavano effettuate, in data 10.8.2008 ed in data 17.11.2008, ulteriori e sempre più eloquenti fotografie del sito”.
Violazioni insomma formalmente scoperte nel febbraio 2009 ma note alla Procura già undici mesi prima, nella assoluta indifferenza.
La sentenza di primo grado sottolinea anche che la presenza dei rifiuti rappresenta un “grave pericolo ambientale (percolazione sul terreno e inquinamento delle falde) nonché pericolo di incendio dell’intera area, considerata la presenza di olii, solventi e materiale plastico, sostanze tutte altamente infiammabili”. Un avvertimento che oggi, col senno di poi, lascia l’amaro in bocca.