Classe 1985, abruzzese di Alba Adriatica, Giorgia Tribuiani ha esordito nel 2018 con il romanzo di esordio Guasti, edito da Voland, e si prepara alla pubblicazione di Blu, una nuova storia che si preannuncia originalissima nei temi e nella lingua e che promette di condurre il lettore nell’affascinante mondo della performance art (tra i suoi modelli anche l’artista rosetano Flavio Sciolè).
Da qualche anno la Tribuiani collabora in qualità di docente con la Bottega di narrazione, prestigiosa scuola di scrittura diretta da Giulio Mozzi: abbiamo deciso di intervistarla per saperne di più e per rivolgerle qualche domanda sul suo approccio alla scrittura.
Che cosa dovrebbe insegnare una buona scuola di scrittura? C’è qualcosa che non si può insegnare, che è innato?
“Credo che prima ancora di trasmettere la “tecnica”, i famosi strumenti del mestiere, una scuola di scrittura dovrebbe insegnare all’allievo a riflettere sulle proprie immaginazioni, a guardarle e a maneggiarle. Personalmente ho sposato l’approccio della Bottega di narrazione, che non basa la didattica su lezioni frontali (e le poche presenti sono incentrate su suggestioni piuttosto che su prescrizioni: ci è capitato di parlare della costruzione della scena proiettando la partita di carte con Bud Spencer e Terence Hill in … Continuavano a chiamarlo Trinità) ma su interi weekend di discussione, dove in gruppo si cerca di capire quale sia il nucleo drammatico, quali le relazioni tra i personaggi coinvolti, quale l’evento in grado di modificarle, farle evolvere, esasperarle. I consigli – e di proposito non uso la parola: regole – diventano quindi contingenti, tagliati di volta in volta su ogni allievo, perché ciò che va bene per una storia potrebbe non essere la via migliore per un’altra.
Se gli strumenti possono essere affinati e l’immaginazione può essere esercitata – e una persona di talento può dunque diventare una persona di talento consapevole delle proprie possibilità comunicative, in grado di usare la tecnica o di tradirla con cognizione di causa – a rimanere fuori è forse la sensibilità, lo sguardo; la necessità del testo. Quelle motivazioni che spingono a scrivere e che riempiono le parole di forza e di bellezza. Questo io credo non si possa insegnare.”.
Qual è il principale errore che commettono gli allievi?
“Probabilmente è quello di iniziare a lavorare su un’immaginazione incompleta: a volte, per esempio, ci si trova di fronte ad ambientazioni futuristiche dove solo un aspetto della realtà è andato avanti (poniamo: ci si muove con il teletrasporto) ma la cultura, la scienza, i costumi, magari perfino i social network, sono rimasti invariati ad onta dei mille anni trascorsi; altre volte la credibilità è minata da uno studio insufficiente del contesto, oppure da personaggi che agiscono senza motivazioni effettive o si muovono nella storia come delle monadi, del tutto svincolati da un contesto sociale o dalle proprie relazioni interpersonali.
Se un allievo non conosce il lavoro del proprio protagonista – a meno che lo stesso protagonista non sia un ricco ereditiere, o un mantenuto, o abbia un giro di affari illeciti (e anche in quel caso è necessario che l’allievo lo sappia) – non potrà conoscere la sua situazione finanziaria, sapere che macchina fargli trovare in garage oppure decidere di mandarlo in ferie o addirittura in aspettativa per tenerlo, ai fini della narrazione, lontano da casa”.
“Il primo consiglio che è utile dare agli allievi, allora, prima ancora di iniziare ad affrontare la spinosa questione del “punto di vista”, è quello di guardare la propria immaginazione, di esplorarla. Esercizio che è utile anche durante la scrittura stessa: spesso una scena non funziona perché l’autore non riesce a vederla, a capire se la luce della strada deserta arrivi dai lampioni o solo dallo sportello del bancomat, e che odori senta il personaggio”.
Quando, nella scrittura, è utile che l’autore si concentri su di sé e quando invece diventa limitativo?
“Anche quando si racconta la storia di qualcun altro, che si tratti di un personaggio reale o inventato, non si può partire che da sé, dal proprio punto di vista e dalla propria sensibilità, e questo è il motivo per cui una narrazione resta narrazione e non potrà mai combaciare con la realtà, neppure nell’autobiografia o nel romanzo storico: attraverso la propria prospettiva e la propria sensibilità l’autore smonta gli eventi, li rimonta, li deforma (e in qualche modo interpreta) tramite il linguaggio. E visto che questo processo è ineludibile conviene all’autore affrontarlo con consapevolezza, avere il controllo laddove un controllo è possibile, farsi domande come: perché voglio raccontare questa storia? in cosa questi personaggi mi somigliano? che strumenti ho (ricordi a cui attingere, conoscenze, vocabolario ecc.) per raccontarla? – in questa prima fase è dunque necessario cercarsi nella narrazione, capire le motivazioni e le proprie potenzialità.
Ma è altrettanto importante tenere a mente che al centro di una narrazione c’è il testo, non l’io, e che la scrittura è relazione: dimenticarlo, a volte, rischia di trasformare una narrazione in uno “sfogo”, e di rovesciare la dinamica per cui l’autore dovrebbe essere al servizio del testo e non il testo al servizio dell’autore; dimenticarlo, altre volte, può trasformare un racconto in un esercizio di stile, in uno spazio di autocompiacimento per le proprie riflessioni e per la propria lingua.
In sintesi io non credo che concentrarsi su di sé sia sbagliato – anzi ritengo che sia per certi versi inevitabile – ma credo sia sbagliato non avere un controllo”.
Esiste qualcosa di cui non si può o non si deve scrivere?
Forse il dilemma, ancora una volta, non riguarda “cosa” si scrive, ma “come” lo si scrive.
Dal punto di vista dei temi, del “cosa” appunto, io sono convinta che si possa scrivere di tutto. I sentimenti più turpi, le pulsioni più abiette fanno parte della natura dell’uomo, e fotografarli con l’arte non può e non deve essere sbagliato. Penso inevitabilmente alla raccolta di racconti Il male naturale di Giulio Mozzi, che divenne oggetto di una interrogazione parlamentare per via di un testo in cui veniva appunto “fotografato” un rapporto di pedofilia: ma se la pedofilia esiste, per quale motivo un autore dovrebbe evitare di parlarne? Evitare di nominare quello che ci fa paura, che ci repelle, non è certo un modo per eliminarlo.
La questione sarebbe stata totalmente diversa, ovviamente, se – anziché fotografare il rapporto – il racconto lo avesse legittimato, giustificato. E allora è qui che al “cosa” subentra il “come”, perché se è vero che un autore può parlare di tutto, è vero anche che nel momento in cui comunica, in cui scrive perché le sue parole vengano ricevute e lette, si investe di una responsabilità nei confronti del lettore che non può più ignorare. Le parole producono effetti, e nonostante chi scrive non possa in alcun modo tenerli tutti sotto controllo, perché è impossibile prevedere l’impatto di un testo su tante diverse sensibilità, l’autore che non prova neppure a immaginare le reazioni dei propri lettori è un autore incosciente”.