Dieci anni in biancorosso: così parlò Falasca

Chieti. Il fisico compatto del brachitipo tradisce l’appartenenza, sine dubio, all’etno italico. Dall’aspetto, te lo immagini, senza fatica, nelle vesti di centurione, avvezzo a guidare i suoi uomini tra le insidie delle Gallie.

 Uno di quelli che in battaglia vorresti sempre affianco, ben sapendo che lui di sicuro ne uscirà senza un graffio e che basterà seguirlo per portare a casa la pelle. Dante Falasca, in apparenza, sembra proprio quello che lui stesso vuol far apparire, un rude ginnasiarca, fronte alta e stretta di mano energica, con solo certezze da dispensare. In realtà, sotto la scorza da duro, puoi cogliere ben altra complessità d’animo, naturalmente se lui ti permette di farlo. Perché questo accada, deve spogliarsi della corazza, pesantissima, che indossa e che lo difende dal quotidiano logorio “professionale”. Mica facile, infatti, il mestiere del preparatore! Farlo per tanti anni, senza rischiare di essere stritolato dalle avversità di tutti i giorni è cosa da Rambo e non da mammolette. Convincere i giocatori a soffrire e a sudare, senza annoiarli, vi sembra cosa da tutti ? Conquistare, poi, la fiducia di tecnici, quasi sempre esasperatamente scettici ed egocentrici, equivale ad una mission impossible. Come è da spiriti eletti il restare impassibili di fronte alle critiche di tifosi, dirigenti e …allenatori che alla prima sconfitta pronunciano la frase lapidaria “Sfido che abbiamo perso, la squadra non corre”. Forse neanche Zenone di Cizio, filosofo stoico del II secolo e fondatore della Stoa, che predicava l’ideale dell’atarassia, ce la farebbe a lasciarsi dietro tutto questo, dominando per intero le passioni.

 Io e il prof. ci vediamo al bar del Teate Center, a pochi passi di distanza dalla sede sociale della Pallacanestro Chieti e dalla palestra Aska, dove di lì a poco il prof. Falasca si occuperà del recupero di Matteo Piccoli. Ci si scalda, parlando un po’ della gara persa dalle Furie la sera precedente a Bologna. L’intenzione è di esorcizzare a vicenda l’amarezza di una sconfitta, rompendo gradualmente quel piccolo muro di riservatezza che separa sempre l’intervistatore dall’intervistato. Ci vuol poco ed entriamo subito in partita.

 Non ami farti intervistare e questo è arcinoto, più misteriosa è la ragione di questa ritrosia a star di fronte a taccuini e microfoni.

 Sinceramente non amo l’ipocrisia che avvolge il circo mediatico dello sport. Detesto non poter dare delle risposte “vere” e allora preferisco tacere. Sono una persona diretta, non uso le sfumature di grigio e non me ne frega un cazzo di piacere agli altri. Sono un tipo a-social, non ho nessun profilo Facebook, Twitter, Instagram. Matteo Piccoli ha scommesso che riuscirà a farmi usare WhatsApp ma si illude. Fosse per me non utilizzerei neanche il cellulare ma, purtroppo, per il lavoro che svolgo è diventato necessario comunicare in tempo reale e pertanto ho alzato bandiera bianca. Questo non vuol dire che non sia disponibile e generoso con gli altri. Anzi, è vero il contrario ma preferisco guardare negli occhi le persone con cui parlo e soprattutto detesto l’invadenza.

 Uno sforzo, però, questa volta ti è dovuto per celebrare il decimo anno di matrimonio tra te e la Pallacanestro Chieti. Matrimonio lungo, matrimonio felice?

 Non voglio sfuggire alla domanda ma bisogna premettere che il matrimonio che unisce un preparatore e una società sportiva è qualcosa di molto, molto complicato. Cambiano spesso i partner e non sempre c’è la chimica giusta. Detto questo però è del tutto evidente che, col carattere che mi ritrovo, se sono rimasto qui per dieci anni di seguito, è stata e continua ad essere una bella storia d’amore. Con il Presidente Di Cosmo il rapporto è addirittura migliorato e cresciuto negli anni. L’Ingegnere ha un carattere forte ed ho scoperto che apprezza come io sia capace, a volte, di opporgli dei no. Credo inoltre che apprezzi di me anche il fatto che in questi anni mi sia sempre battuto per la società e non per fini strettamente personali. Con Guido Brandimarte ho un rapporto che si può definire fraterno. Ormai dopo tanti anni ci basta uno sguardo per capirci. Apprezzo in Guido la sua grande competenza che non si sposa mai con la presunzione. Mi auguro che a Chieti i tifosi un giorno possano finalmente riconoscere i suoi meriti e onorarlo. Ma si sa, nemo propheta in patria.

 A proposito di profeti e di patrie, tu ha sempre lavorato a casa tua e in zone limitrofe. Non hai mai nutrito l’aspettativa di puntare a qualche incarico più ambizioso?

 No! Neanche per un attimo ho mai pensato di costruirmi una carriera fuori dal mio ambiente. Ho iniziato abbastanza presto a insegnare a scuola e ho sempre trovato soddisfacente lavorare su un territorio che sento profondamente mio. Tutte le squadre che ho allenato per me hanno avuto e continuano ad avere il medesimo fascino delle squadre top level. Il Silvi, squadra dove ho iniziato a fare il preparatore, per me valeva quanto il Real Madrid. Garantisco che lavorare con i Lakers non aggiungerebbe nulla di più della gratificazione che provo nell’allenare la squadra della mia città. Aggiungo che pur restando in Abruzzo, ho potuto cogliere le mie belle soddisfazioni: due scudetti e una Futsal Cup (n.d.r. la massima competizione europea) nel calcio a 5, tre promozioni con la pallacanestro a Chieti e Ortona. Lavorare in Abruzzo non ha mai rappresentato per me una limitazione. Al contrario a Silvi, Pescara, Chieti, Montesilvano e Ortona, ovunque io abbia lavorato ho potuto sempre trarre un arricchimento umano e professionale.

 Torniamo a Chieti, dieci anni, tanti allenatori e tanti giocatori. Vogliamo fare un po’ di cronistoria?

 La mia prima stagione è quella 2007/08, l’anno in cui approdammo in B2, acquisendo il titolo da Roseto. Allenava la squadra Giorgio Salvemini, con il quale ho instaurato un grandissimo rapporto. Giorgio è una persona squisita che si confronta tantissimo e che ti permette di lavorare in piena autonomia. L’anno successivo partiamo ancora con Salvemini, che viene sostituito in corso d’opera da Gabry Di Bonaventura, che reputo per me un fratello, l’unico che riesca a placare le mie turbe quando sono fuori di me. Facciamo un buon campionato e nella stagione successiva ripartiamo da Di Bonaventura. Le cose non vanno molto bene e a metà gennaio a Gabry subentra Lino Frattin ….

 E allora?

 E allora … stendiamo un velo pietoso. Ti dico solo che con lui rischio un paio di volte di arrivare alle mani. Ti basta ?

 Nel 2009 arriva Domenico Sorgentone.

 Tre anni esaltanti insieme alla “volpe grigia”, tre anni che si possono riassumere in una promozione, in uno spareggio promozione, dove per pochissimo manchiamo l’accesso alla serie A, e infine in una salvezza raggiunta con una rimonta da 0-2 a 3-2 contro Mantova. Sorgentone è molto più di un semplice allenatore di basket, è un uomo “completo”.

 Puoi spiegare meglio questo concetto?

 Certo! Per gente come Sorgentone o Di Bonaventura, è limitativo definirli unicamente come allenatori. Hanno la capacità di andare ben oltre la pallacanestro e con loro puoi ritrovarti a discutere di qualsiasi argomento. Questo li rende culturalmente più ricchi, sono uomini che sanno ascoltare e prendere decisioni in piena autonomia. Hanno una marcia in più e questo li rende anche ottimi motivatori. Quando parlano è impossibile, anche per il giocatore più distratto e superficiale, non ascoltarli.

 Si chiude l’era Sorgentone e la squadra viene affidata a Nino Marzoli, con il quale avevi già lavorato a Silvi.

 Ho imparato tantissimo da lui. Avevamo un grande rapporto d’amicizia, un rapporto simile a quello che hanno due fratelli che si sfidano continuamente. Diciamo che in allenamento e prima delle gare eravamo molto “competitivi”. Da parte mia è rimasto affetto e grande stima,anche se dopo il suo esonero non ci siamo più sentiti.

 Quella stagione si chiude con Bartocci.

 Un rapporto cordiale e professionale, non c’è stato il tempo per conoscerci a fondo.

 Si apre così a partire da 2014 l’era di coach Galli.

 Grande professionista, dotato di un’eccellente cultura del lavoro. Lascia ampia autonomia alla mia programmazione ed è sempre in una situazione d’ascolto. Si confronta ed è capace di riunire in sé tutte le voci che compongono lo staff tecnico.

 Passiamo ai giocatori, so che anche per loro hai un tuo personale modo per classificarli.

 Semplice! Il preparatore spesso diventa, per cause specificatamente professionali, una specie di confessore. Ho così imparato a conoscere i giocatori a fondo e a valutarne l’aspetto morale. Questo mi ha portato a distinguerli in due grandi categorie: quella degli “uomini “e quella dei “giocatori”. I primi sono capaci di anteporre il gruppo ai loro interessi personali e di lasciare sempre qualcosa che poi è destinato a restare; i secondi si limitano, quando ci riescono, a farti vincere, punto e basta. Personalmente ritengo che farti vincere le partite non basti ma riconosco che nell’ambito dello sport italiano è un giudizio poco condiviso.

 Puoi fare un paio di esempi?

 Non mi tiro indietro. Rajola per la categoria “uomini”, Feliciangeli, uno dei migliori atleti da me allenati, per quella relativa ai “giocatori”.

 Sei rimasto in contatto con qualcuno dei tanti giocatori che hanno indossato la canotta biancorossa?

 Sono tre e tutti “uomini”: Vario Bagnoli, grandissimo uomo d’area e matto quanto me, Gianluca De Ambrosi, giocatore istintivo e tiratore mostruoso, ed infine il Professor Andrea Raschi, puro fosforo applicato al gioco della pallacanestro.

 Ti propongo, escludendo i ragazzi dell’attuale roster, il gioco dei più.

 Pronto!

 Il giocatore che più ti ha impressionato?

 Stefano Rajola, un “mostro” di intensità, di applicazione, di dedizione e di grinta. Leader puro, che senza avere mezzi atletici e tecnici di primo livello, è stato e continua ad essere giocatore di primo livello. La dimostrazione, fatta persona, che la forza mentale può tutto.

 Il giocatore più migliorato?

 Poppy Gialloreto, che ho contribuito a trasformare negli anni da ragazzo cicciottello a vero atleta. Altro esempio di come con la volontà e l’allenamento si possano raggiungere risultati impensabili.

 Il giocatore con più carattere?

 Dovrei dire ancora Rajola ma lui è in realtà un mostro fuori categoria. Tra gli esseri umani scelgo Lele Rossi, grande carattere, grande professionista, vero gladiatore.

 Il più scarso?

 Ecco perché non voglio mai fare interviste, ho quattro cinque nomi sulla punta della lingua ma mi avvalgo, come dicono nei telefilm americani, della facoltà di non rispondere.

 Siamo alla fine, appuntamento per la prossima intervista al 2027, vuoi aggiungere qualcosa?

 Due cose se permetti? La prima riguarda una colpevole omissione, non avendo citato, nel ripercorrere la mia carriera in biancorosso, tra le tante persone belle con le quali ho avuto la fortuna di lavorare, Luca Colella e Roberto Perricci. Per me due cari fratelli con il quale continuo ad avere rapporti d’amicizia che prescindono la pallacanestro. La seconda riguarda un mio comportamento di cui mi onoro, citando il quale, mi piacerebbe chiudere quest’intervista.

 Spara?

 In tutta la mia carriera ho gioito solo ed unicamente per le vittorie delle mie squadre e mai per le sconfitte dei miei avversari. Credo, personalmente, che in questo consista non solo il fair play ma anche il senso più vero e profondo dello sport. Credo che tutti i professionisti che animano ogni domenica la scena dei campi di gioco debbano sempre fare attenzione a come si comportano. Educare i ragazzi secondo il principio del rispetto dei propri avversari è il primo dovere di chiunque operi in campo sportivo.

 Una stretta di mano chiude l’intervista, c’è solo il tempo di salutarci, dandoci appuntamento al prossimo allenamento delle Furie. Vedo allontanarsi la sagoma del prof. in direzione della palestra, dove l’attende Matteo Piccoli. È ora di pranzo ma per Dante Falasca oggi non c’è tempo neanche per un panino. Prima di tutto viene la squadra!

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