Giulianova, intervista al poeta emergente Fabio Zarroli

Giulianova. A distanza di quattordici anni, ho scoperto che il mio compagno di banco delle scuole elementari scrive poesie.

Di recente la casa editrice Dantebus, con sede a Roma, ne ha pubblicate alcune. Ho intervistato a distanza Fabio Zarroli, che attualmente vive a Cáceres, in Spagna, ritrovando un po’ di quel bambino con la mano alzata nelle ore di italiano.

Le tue poesie sono state pubblicate dalla casa editrice Dantebus per il volume 66 della collana Isole, assieme a quelle di altri sette autori. Sfondo verde smeraldo e titolo in fucsia shocking, la copertina della raccolta è ipnotica. Però quando comincio a leggere mi immergo in una cromia diversa, fatta di colori meno netti e splendenti; sono davanti a un tramonto sulla costa abruzzese, dalla durata più lunga del previsto. Tu dov’eri e verso quale luogo vuoi condurci in Alba, per te sto urtando al tramonto?

Io mi trovavo a Torino, ben lontano dalla costa abruzzese. Seppur è vero che le immagini cui ti riferisci sono sedimentate dentro di me ̶ ho vissuto fino ai diciotto anni sul litorale adriatico ̶ il tramonto citato nel titolo è quello descritto musicalmente da Wes Montgomery in Bumpin’ on sunset, uno dei miei pezzi preferiti del chitarrista di Indianapolis e sottofondo ideale al componimento. Sunrise richiama invece esplicitamente il nome di una mia
conoscenza dell’epoca che aveva lasciato il capoluogo piemontese in quegli stessi giorni. Ma quello in cui il componimento si propone di trasportare è un eccezionale luogo fuori dal tempo e dallo spazio, evocato da termini desueti come «indarno», dalla metafora leopardiana «selve» per «pensieri», dal richiamo a una fiaba del Pentamerone, dall’immagine dell’allontanamento della persona desiderata definita attraverso i due endecasillabi iniziali e dal v.12, dal contrasto sinestetico a tre elementi del v.14 e da quello luce/buio del v.15 e da molte altre opposizioni di piani e sequenze spaziali temporali
e/o logiche tra loro irrelate.

Sono d’accordo con chi nella introduzione all’autore afferma che le poesie di Fabio sono vicine al concetto di post-apocalittico. Per esempio, lo si evince in “Futuramente” i cui versi finali, lasciatelo dire, sono abbastanza dolorosi. Ce ne parli?

Quella piccola strofa produce dolore perché si avvicina molto al concetto di nostalgia. In un mondo, come quello odierno, di prospettive apocalittiche ̶ non dimentichiamoci che ci sono orologi più che cubitali esposti in giro per il mondo che hanno iniziato il loro conto alla rovescia verso il punto di non ritorno ̶ guardare al futuro vuol dire addossarsi la responsabilità di problemi ambientali ed etici. Se per esempio in Dentro i tempi, titolo per un certo verso sarcastico, dato l’anacronismo dello stile che qualcuno potrebbe contestarmi, facendo del mare inquinato una «sirena» cerco di restituire alla natura la bellezza che l’inquinamento le sottrae, in Futuramente l’alienazione si serve, per attuarsi, del passato sotto forma di ricordo. I «piccoli tagli» sono i problemi che col passare del tempo si riducono a piccolezze e «le passeggiate a riva d’agosto» rimandano ai pomeriggi estivi in cui col caldo, in spiaggia, bastava un costume e qualche amico per non sentire addosso le responsabilità cui sopra accennavo.

Isole, rive di cocci delle conchiglie, strade lungo cui galoppare, ci regali paesaggi bucolici, ma poi arriva Torino con nuovi giochi di luce. Qui, l’io lirico, invocandola, si rifugia nell’energia di un’altra bellezza?

Assolutamente sì! Lasciami sottolineare come anche qui subentri il tema del ricordo, anche se in questo caso si confonde con l’ambientazione onirica. Ricordo perfettamente quella notte e quell’alba. Ero nella mia stanza e la città iniziava a svegliarsi, ma la mia attenzione non poteva rivolgersi che alla luce di quel cielo così cristallino. Mi sembrò, quella luce, una consolazione per l’incubo di qualche momento prima.

Passando all’aspetto tecnico, volevo chiederti quale tipo di riflessione hai condotto sulla metrica. La libertà del verso risiede nella scelta di una forma o nel fuggirla?

Ricordo un enorme sforzo quando ripenso alla composizione di Momento epocale, la quale posso dire essere un metro del tutto inedito. Per me, il riscontrare un metro più o meno canonico in un verso è l’inevitabile. Non potrei pensare di scrivere un verso e una volta scritto non constatarne il metro, definirne la posizione degli accenti e, in caso, modificarlo laddove lo ritenga opportuno. Non è ovviamente una questione ritmica, tra i poeti che preferisco vi sono alcuni che hanno fatto del ritmo del parlato un punto di forza, ma la “puzza di poesia” che io – per il momento – ritengo parte essenziale e strategica della mia dialettica (di certo non giunta a un sufficiente livello di maturità), si nutre anche
di scontati ipertecnici e forse frustranti vincoli metrici.

I tuoi poeti guida chi sono?

Da ognuno dei poeti che si legge si impara qualcosa sulla vita e dunque è inevitabile che questi insegnamenti, per chi si cimenta a fare poesia, si riflettano nei versi. Direi però che quando si legge molto un poeta, qualcosa del suo lessico, della sua ritmica e in generale delle sue strategie, sedimenta nella memoria per poi andare a costituire una parte essenziale del processo creativo. Direi che fra questi vi sono colonne come Montale, soprattutto il primo, il D’Annunzio dell’Alcyone e paradossalmente, ma in gran parte, un poeta che ho motivo di credere avrebbe da ridire a proposito di molti aspetti delle mie poesie e sul quale sto scrivendo il mio lavoro di tesi: Vittorio Sereni.

Chiara Buoni

 

 

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