Emergenza coronavirus. La vergognosa caccia all’untore e violazione dei dati personali

Tutti bravi, tutti uniti a cantare e ballare fuori dai balconi dando dimostrazione di essere patriottici in un momento di grande emergenza mondiale come quella che stiamo vivendo per via del coronavirus.

Poi però quando si scopre che un vicino di casa ha contratto il CoVid19, si innesca una caccia all’untore, si va alla forsennata ricerca di tutti i dati per veicolarli attraverso i social, attraverso messaggi vocali che ribalzano da un gruppo all’altra su whatsApp, per additare il malcapitato. E’ accaduto a Roseto col primo caso di contagio, si è ripetuto nuovamente sempre a Roseto in occasione del secondo soggetto che ha contratto il coronavirus.

Quando il problema ci è distante diventiamo dei fenomeni con azioni di solidarietà, che poi lasciano il tempo che trovano – non sono d’accordo con gli schiamazzi dai balconi perché c’è un’assenza di rispetto nei confronti di quelle famiglie che hanno perso i propri cari – ma se ci sfiora ci trasformiamo in belve.

Noi abbiamo un nemico invisibile da combattere ed è il CoVid19. E tutte le azioni adottate finora ci consentiranno di vincere la guerra. Alcune battaglie inevitabilmente si perderanno. In questa lunga sfida si contano tanti morti, soprattutto nonni e genitori anziani, i soggetti più deboli e quasi sempre con malattie pregresse.

Ma dobbiamo combattere anche con un altro nemico, molto più pericoloso: l’uomo che la sua ignoranza rischia di fare più male dello stesso coronavirus. Vergognoso quelli che chiedono rendere pubblici i dati personali di chi ha contratto il virus, vergognoso puntare il dito contro un nostro concittadino.

Siamo tornati al periodo medievale, a quei 400 anni di storia in cui la Santa Inquisizione tacciava di stregoneria chi usava erbe e fiori per i medicamenti. In piazza venivano organizzate pire e le “streghe” finivano al rogo. Sembra che qualcuno abbia compiuto un passo a ritroso, ma in chiave moderna. Non c’è il rogo, ma c’è quella sadica voglia di conoscere e far sapere chi ha contratto il coronavirus. Eppure se rispettiamo i comportamenti da tenere, non c’è alcun rischio di contagio. Mentre al nostro vicino vanno rivolti i migliori auguri di pronta guarigione.

“Rispetto ad un’emergenza pandemica, un evento così traumatizzante per ognuno di noi”, spiega la dottoressa Alessandra Lucia Meda, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva, Istituto di Ortofonologia Roma, “possiamo avere delle reazioni di alienazione da sé e dagli altri, come meccanismo di difesa a tale evento. La nostra Regione ha già conosciuto effetti derivanti da un trauma collettivo, il terremoto, che però chiedeva ai cittadini la necessità di non stare in casa, luogo fisico per eccellenza simbolo della sicurezza, per andare in luoghi “aperti” dove le persone si trovavano insieme, e dove per effetto abbiamo assistito a maggiore condivisione delle emozioni nonostante lo shock iniziale. Oggi, invece, c’è un luogo fisico (la casa) nel quale si chiede di restare”, prosegue la dottoressa Meda, “assistiamo però ad una forte condizione di isolamento: isolamento relazionale con il mondo esterno, ma anche una tendenza all’isolamento nello stesso nucleo familiare, una mancanza di comunicazione, diremo una incomunicabilità dei propri vissuti emotivi interni che si proietta all’esterno sull’altro. Ed è così che due eventi traumatici come il terremoto o un virus simili per imprevedibilità e identificazione della paura hanno però una differenza: il terremoto è espressione della terra e si propaga in essa, mentre un virus passa attraverso il mezzo dell’uomo, per cui è più facile che si possa assistere a comportamenti di “caccia all’uomo” che alimentano altresì diffidenza e paura. Con fiducia si auspica di compensare questo deficit di comunicazione e comunicabilità per sentirsi meno soli ed alienati da se stessi e dagli altri”.

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