Le motivazioni della sentenza Bussi: inquinavano senza saperlo

Pescara. Ignari di inquinare: è questa la base della sentenza che il 19 dicembre scorso ha assolto dai reati di avvelenamento e disastro ambientale gli imputati al processo per la mega-discarica di Bussi.

Nelle oltre 180 pagina di motivazione depositate dalla Corte d’Assise di Chieti, spicca la seguente considerazione: “Le condotte poste in essere dagli imputati non denotano affatto una comune e precostituita volontà criminosa, frutto della volontà di occultare lo stato di contaminazione della falda, potendosi al più ritenere che vi sia stata la volontà di rappresentare un quadro della contaminazione del sito dello stabilimento tale da limitare le doverose attività di messa in sicurezza e bonifica”.

Per i giudici, dunque, gli ex vertici della Montedison “non avevano la possibilità di rappresentarsi il futuro avvelenamento dell’acqua destinata all’alimentazione”. Ecco spiegato perché non avrebbero commesso il reato di avvelenamento delle falde acquifere che alimentano il fiume Pescara e conseguentemente acquedotti della Val Pescara fino al mare Adriatico: “Tutti i soggetti che si sono occupati delle problematiche latamente ambientali”, prosegue la sentenza, “hanno agito sulla base di un quadro di conoscenza assolutamente insufficiente e sicuramente molto più tranquillizzante rispetto a quanto emerso in seguito”.

L’altro reato contestato, quello di disastro ambientale, è stato derubricato da doloso a colposo, pertanto finito in prescrizione. Nessuna volontà, quindi: “Nessuno degli imputati avrebbe tratto vantaggio personale, né è stato dedotto che gli stessi abbiano ricevuto forme di remunerazione sia pur indiretta”, afferma la Corte presieduta da Camillo Romandini. Tra le righe, infine, si può leggere quasi una giustificazione nei confronti degli imputati: “Al contempo, gli imputati che risiedevano nella zona alimentata con le acque contaminate venivano ad essere esposti al rischio derivante dal presunto avvelenamento”, sottolineano i giudici.

NESSUN PERICOLO

La conclusione tratta dalla Corte d’Assise, peraltro, scamperebbe dal pericolo le centinaia di migliaia di persone che si abbeverano dagli acquedotti che attingono al Pescara. I giudici sono, infatti, “pervenuti alla conclusione che non c’è stato pericolo per la salute pubblica, in quanto l’acqua emunta al Campo Pozzi era sostanzialmente potabile e minimamente contaminata, mentre l’acqua di falda (nel punto di maggior contaminazione) non era neppure ipoteticamente destinabile per scopi alimentari”, pertanto ” si può pervenire all’assoluzione di tutti gli imputati, perché il fatto non sussiste”.

Vene, poi, chiamata in causa la relazione dell’Istituto Superiore di Sanità sul “rischio potenziale derivante dall’utilizzo di acqua proveniente da una sorgente contaminata da plurime sostanze tossiche”; per la Corte è corretta l’analisi svolta dall’Iss, “tuttavia tale giudizio non e’ idoneo a far ritenere provato – in termini di certezza – la sussistenza di un pericolo concreto connesso all’assunzione dell’acqua emunta presso il campo pozzi e nella quale sono state rinvenute sostanze tossiche in numero e, soprattutto, concentrazione assolutamente limitato e nemmeno lontanamente comparabile con lo stato di contaminazione riscontrato nella zona a monte ove e’ stata ubicata la fonte dell’inquinamento”. La Corte si occupa anche dell’assenza di “qualsivoglia studio epidemiologico idoneo a stabilire che l’acqua fornita agli utenti possa aver in qualche modo inciso negativamente sulla loro salute, essendo stato prodotto esclusivamente uno studio statistico realizzato dall’Agenzia Sanitaria Regionale relativo al periodo 2006-2011”. “La Corte – scrivono ancora i giudici – rileva come lo studio statistico in esame non solo non apporti elementi di conoscenza a sostegno della tesi accusatoria, ma fornisca addirittura elementi contrari, dimostrando come l’area della Val Pescara servita dall’acqua contaminate presenta – a livello meramente statistico – una morbilità (casi di malattia riscontrati, Ndr.) inferiore rispetto alla media regionale”.

INQUINAMENTO CONTRARIO ALL’INTERESSE IMRPENDITORIALE

“Nel caso di specie sia pacificamente da escludersi che la condotta degli imputati sia stata sorretta dal dolo diretto, inteso quindi come coscienza e volontà dell’evento di pericolo proprio del reato di avvelenamento”, niente volontà di delinquere, secondo la Corte, dei 19 imputati, per i quali i pubblici ministeri avevano chiesto condanne che andavano tra i 12 anni e 8 mesi e i 4 anni. “A tale conclusione – proseguono i giudici – si giunge agevolmente osservando come non vi era alcuna ragione sotto il profilo dell’interesse personale dei singoli imputati, ma anche nell’ottica di una sorta di interesse superiore ed unificante estrinsecantesi in direttive date in attuazione della politica di impresa volta a minimizzare i costi per la tutela ambientale, che potesse in alcun modo giustificare la scelta – volontaria e consapevole – di avvelenare le acque di falda emunte al campo pozzi. A ben vedere una simile scelta sarebbe stata non solo del tutto incompatibile con l’ordinario agire umano, ma anche controproducente sotto il profilo strettamente imprenditoriale”. Secondo la Corte d’Assise, “in mancanza di elemento contrari e’ lecito ritenere che l’operatore economico, pur avendo sempre di mira la necessita’ di ridurre spese improduttive, ha un generale e prioritario interesse a proseguire la gestione dell’impresa in maniera tale da non dar luogo a possibili cause impeditive del normale svolgimento dell’attivita’. In quest’ottica, cagionare volontariamente l’avvelenamento delle acque destinate ad una numerosa popolazione, con il rischio di far insorgere forme di malattia agevolmente riconducibili all’attivita’ chimica svolta presso il sito di Bussi, avrebbe rappresentato una scelta non solo criminale, ma contraria allo stesso interesse alla prosecuzione dell’attivita’ imprenditoriale”.

DISASTRO RISALENTE AL 1995: DA PRESCRIVERE

“La conoscenza parziale del reale stato di contaminazione e, soprattutto, delle cause che lo determinavano, costituisce di per se’ un elemento difficilmente sormontabile nell’ottica della tesi d’accusa volta a sostenere la commissione dolosa del reato di disastro ambientale”. Ecco perché l’esclusione della natura dolosa del disastro ambientale con conseguente prescrizione del reato. “Appare ben difficile – si legge nella motivazione – desumere l’esistenza del dolo – peraltro intenzionale – sulla base della indimostrata equazione per cui la logica imprenditoriale, tesa a massimizzare il profitto, perseguirebbe i propri fini anche a discapito di valori di fondamentale importanza quale la tutela della salubrita’ ambientale. Una simile affermazione, oltre ad essere obiettivamente di difficile dimostrazione allorche’ si vuole sostenere l’esistenza di un elemento doloso intenzionale comune ad una pluralita’ di soggetti succedutesi nel corso dei decenni nella gestione industriale, si scontra anche con il dato emergente dai documenti acquisiti agli atti e, in particolare, da quelli concernenti gli interventi eseguiti nel corso degli anni all’interno dello stabilimento industriale per migliorare lo standard di qualita’ ambientale”. Relativamente all’individuazione del momento di consumazione del disastro, la Corte ritiene che “la gravita’ dell’inquinamento avesse sicuramente raggiunto la soglia del disastro ambientale in epoca nettamente precedente al 2007 potendosi collocare l’epoca di commissione della condotta di disastro ambientale al piu’ tardi verso la fine degli anni ’90. Non e’ certamente escluso che successivamente a tale ambito temporale vi siano state ulteriori immissioni di sostanze inquinanti, ma queste hanno sicuramente avuto un ruolo causale non rilevante rispetto alla contaminazione storica prodottasi nei decenni precedenti”. Secondo i giudici, “puo’ affermarsi che ove pure non fosse stata riconosciuta la natura colposa del disastro ambientale, si sarebbe in ogni caso pervenuti alla declaratoria di prescrizione, atteso che l’art, 434 2comma c.p. prevede una pena edittale di 12 anni di reclusione sicché il termine massimo per la prescrizione è  pari a 15 anni. Andando a ritroso ne consegue che, pur nell’obiettiva difficolta’ di individuare in termini di assoluta certezza l’epoca di commissione del reato, e’ ragionevole affermare la consumazione delle stesso al piu’ tardi in epoca prossima al 1995 e, quindi, in un periodo sicuramente coperto dalla prescrizione”.

FORUM ACQUA: MACIGNO SUI LIMITI PER INQUINAMENTO

“La sentenza del processo di Bussi rischia di essere un macigno sull’applicabilità dei limiti di legge sulle acque potabili e sull’inquinamento e apre al caos normativo e giurisprudenziale. Stiamo leggendo le 188 pagine della sentenza del processo di primo grado per il disastro di Bussi con cui è stato escluso il reato di avvelenamento delle acque destinate al consumo umano. Ovviamente sarà svolto un approfondimento tecnico-giuridico nei prossimi giorni. Emergono però evidenti discrasie sulla ricostruzioni dei fatti in merito alla contaminazione dei Pozzi S.Angelo. Si parla di superamenti “sporadici” e “limitati” delle soglie, quando , a mero titolo di esempio, il tetracloruro di carbonio è stato rilevato con concentrazioni fino a tre volte i limiti fissati dall’Istituto Superiore di Sanità e oltre questo limite in quasi il 10% dei campioni. Ci sono, addirittura, incongruenze anche sulle valutazioni. Tra i diversi casi, segnaliamo che a pag.116, ad esempio, i giudici scrivono che i contaminanti “hanno sicuramente reso l’acqua non potabile” quando a pag.130, nelle conclusioni, scrivono che l’acqua era “sostanzialmente potabile“*. In generale quella che più preoccupa, per le conseguenze che può avere in tutta Italia, è la parte relativa al rispetto dei limiti di legge sulla potabilità e alla pericolosità per la salute umana derivante dai superamenti degli stessi. Scrivono, tra l’altro, i giudici “In definitiva le analisi condotte sulle acque emunte al campo pozzi hanno dimostrato in maniera certa la presenza di inquinanti che…. hanno sicuramente reso l’acqua non potabile, ma non può per ciò solo affermarsi che l’acqua captata dal sottosuolo fosse “avvelenata” e, cioè, potenzialmente in grado di produrre effetti deleteri per la salute pubblica”. I giudici si appiattiscono, infatti, sulla tesi difensiva per la quale questi limiti sarebbero molto cautelativi in quanto fondati sul principio di precauzione e un loro superamento non determinerebbe in concreto un pericolo per la salute pubblica. I PM e l’Istituto Superiore di Sanità avrebbero dovuto individuare altre soglie, direttamente collegabili al pericolo. Così non solo si smonta la legislazione italiana in materia di prevenzione facendo rimanere di fatto solo l’arbitrio ma addirittura si trasforma il principio di precauzione in uno scudo per gli inquinatori. Auspichiamo che il ricorso e il giudizio di secondo grado possano ribaltare questa impostazione.

A pag.92 leggiamo, quando si tratta della dispersione degli inquinanti in falda, un testuale “piuma di inquinamento”. Forse sarebbe stato meglio tradurre il termine inglese “plume” in pennacchio come fanno tutti i testi in materia di contaminazione.

*il concetto giuridico di “sostanzialmente potabile” attualmente ci sfugge”.

Forum abruzzese dei movimenti per l’acqua

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